ISSN 2239-8570

Danni non patrimoniali: il compimento della drittwirkung e il declino delle antinomie, di Emanuela Navarretta

Emanuela Navarretta – Professoressa Ordinaria di Diritto Privato

Articolo già pubblicato in NGCC, 2009, II, p. 81

Sommario: 1. I tre snodi critici affrontati dalle sezioni unite. – 2. La fragilità concettuale della teoria del danno esistenziale e il riduzionismo insito nel conflitto tra cc.dd. «esistenzialisti» e «antiesistenzialisti». – 3. I diritti inviolabili presi sul serio e la tutela della persona. Gravità dell’offesa o limite della tolleranza? – 4. La falsa alternativa fra monismo e pluralismo delle voci di danno e il problema reale della trasparenza dei criteri di liquidazione. – 5. Fiori di fuoco, fiori di ghiaccio e prospettive future.

1. I tre snodi critici affrontati dalle sezioni unite.

Le quattro sentenze delle sezioni unite del novembre del 2008 (nn. 26972-26973-26974-26975), pur nel consolidamento del revirement del 2003 (1), svolgono un’opera di chiarificazione e di superamento di ambiguità e contrasti, che riveste una notevole carica innovativa polarizzata intorno a tre snodi critici della materia.

Viene dimostrata la fragilità concettuale della teoria del danno esistenziale e al contempo delineata la polisemia di un termine, la cui molteplice valenza inficia di riduzionismo la contrapposizione radicale fra cc.dd. «esistenzialisti» e «antiesistenzialisti».

I tentativi di edulcorare il riferimento alla Costituzione e di enfatizzare l’ambiguità del rinvio all’art. 2 Cost. sono superati dall’univoco richiamo – nell’ambito sia della responsabilità extracontrattuale sia contrattuale – alla categoria dei diritti inviolabili, la cui forza assiologia e la cui flessibile aderenza al pluralismo dei diritti mostrano una perfetta consonanza con le esigenze di tutela della persona e con le peculiarità dei danni non patrimoniali.

Infine, sul terreno della liquidazione viene infranto lo schermo formale delle voci di danni che per anni si sono moltiplicate e che talora hanno generato automatiche sommatorie. L’invito al monismo nella stima del quantum, nonostante i limiti che evidenzia al proprio interno, si traduce in uno stimolo a considerare l’effettivo danno da risarcire e a misurarsi con i problemi reali del quantum.

2. La fragilità concettuale della teoria del danno esistenziale e il riduzionismo insito nel conflitto tra cc.dd. «esistenzialisti» e «antiesistenzialisti».

L’espressione danno esistenziale, oggetto di vivaci contrasti dottrinali e di divisioni giurisprudenziali che hanno condotto all’intervento delle sezioni unite, cela differenti possibili approcci giuridici e diverse configurazioni concettuali.

Tale polivalenza e polisemia ha alimentato le ambiguità e ha enfatizzato la stessa portata del conflitto giurisprudenziale. Le pronunce delle sezioni unite spezzano il velo dei fraintendimenti distinguendo nettamente la teoria del danno esistenziale, che ha avuto un minimo seguito giurisprudenziale concentrato nell’area dei giudici di pace, rispetto ad un utilizzo del termine a fini meramente descrittivi. L’importante opera chiarificatrice va ulteriormente integrata evidenziando all’interno della prospettiva descrittiva una diversità di possibili significati, rispetto ai quali è doveroso operare una selezione.

Nella sua configurazione originaria il danno esistenziale identifica una precisa teoria finalizzata a sottrarre i danni non patrimoniali ai vecchi limiti dell’art. 2059 cod. civ. e costruita, sulle orme del danno biologico, postulando un pregiudizio che in sé andrebbe a incorporare un valore costituzionale (2).

Le sezioni unite, confermando l’impostazione già accolta in precedenti pronunce della stessa Cassazione (3) e aderendo ai rilievi critici mossi dalla dottrina (4), contestano radicalmente tale teoria viziata da un’erronea emulazione del modello del danno biologico e dal perseguimento di un fine non condivisibile sotto molteplici aspetti.

L’idea di un pregiudizio che incorpora un valore costituzionale, del tutto innocua nel danno biologico che può derivare unicamente dalla lesione della salute, una volta traslata nel danno esistenziale che può discendere dall’offesa a qualsivoglia interesse, si carica di ambiguità e di paradossi.

Per giustificare la valenza costituzionale del danno diviene, infatti, inevitabile associare in via di automatismo la produzione di tale pregiudizio con la lesione di un interesse di rango costituzionale o con l’offesa ad un valore fondamentale.

Sennonché tale affermazione implica che la prova del danno diviene in re ipsa dimostrazione della lesione di un interesse o dell’offesa ad un valore, il che consente di prescindere dall’autonoma dimostrazione del danno contra ius. La teoria, in sostanza, genera una sovrapposizione di piani fra ingiustizia e danno che conduce all’esito, inatteso per gli stessi fautori della teoria (5), di abrogare tout court l’ingiustizia.

L’assurdità del risultato, d’altro canto, non stupisce ove si consideri che a monte la concezione persegue l’inaccettabile obiettivo di applicare ai danni non patrimoniali la regola dell’ingiustizia del danno, conferendo all’art. 2059 cod. civ. un contenuto identico all’art. 2043 cod. civ. e così abrogando in via ermeneutica lo stesso art. 2059 cod. civ. Ma la forzatura del sistema non riesce poiché la soluzione tecnico giuridica prescelta, lungi dal conseguire il suo obiettivo, cioè la regola dell’ingiustizia, in realtà lo annienta. Né può tacersi che il tentativo di applicare la suddetta disciplina ai danni non patrimoniali, motivata dall’idea di tutelare la persona, in realtà non è coerente con la stessa intenzione che la anima. E, infatti, con la regola dell’ingiustizia i danni non patrimoniali verrebbero concessi non solo per la lesione di interessi personali ma anche per l’offesa ad interessi patrimoniali, il che a ben vedere amplia la protezione del patrimonio e non certo della persona.

Ripercorsi – e in parte anche integrati rispetto alle considerazioni della Corte – i passaggi essenziali della critica alla teoria del danno esistenziale, si apre di seguito la prospettiva del possibile utilizzo descrittivo del termine, che – come già anticipato – implica una doverosa selezione fra due significati ben distinti.

Il primo cristallizza il danno esistenziale nel paradigma del «non poter più fare» misurato attraverso la differenza fra gli impegni contemplati nell’«agenda esistenziale» prima e dopo l’evento lesivo (6). Simile concezione, oltre a presentare un contenuto – come si dirà – piuttosto riduttivo, non è coerente soprattutto con i principi guida che devono ispirare il risarcimento del danno alla persona.

Chi subisce un danno derivante dalla lesione di un diritto inviolabile e che è tale da riflettersi negativamente sulla sua esistenza (si pensi emblematicamente al danno per la perdita di uno stretto congiunto) vive un dramma che è al tempo stesso unico, per l’assoluta peculiarità esistenziale e relazionale di ciascuno, eppure profondamente analogo fra un danneggiato e l’altro, icona della ribellione alle disparità che genera il danno patrimoniale ed emblema dell’uguale dignità dell’uomo che prescinde non solo dai suoi soldi, ma anche dal suo facere, dalla sua cultura, dalla sua intelligenza, dalle sue capacità, dal suo essere pigro o sportivo, solitario o socievole.

La necessità di far coesistere la pari dignità dei danneggiati con la variegatezza dei danni o se si vuole l’uguaglianza formale con l’uguaglianza sostanziale è stata rispettata nella costruzione del danno alla salute (7), mentre appare violata dalla concezione del danno esistenziale che guarda solo al cambiamento nella dimensione del facere, emulando erroneamente il suddetto modello. Il danno alla salute, infatti, contempla un nucleo che è coerente con l’uguaglianza formale, in quanto attraverso il valore uniforme dell’unità di misura dell’invalidità riflette l’idea che a parità di percentuale di invalidità vi sia un’analoga ricaduta esistenziale negativa per le vittime, e dà spazio alla prova dell’incidenza negativa dell’invalidità su attività extralavorative del danneggiato solo nella prospettiva della personalizzazione del risarcimento.

La formula dell’adattamento equitativo in tal modo rispecchia il bisogno di tenere conto della diversità del danno e dell’uguaglianza sostanziale, ma nella perfetta cognizione dell’impossibilità di riflettere in toto la peculiarità e la qualità esistenziale di ciascuno nonché nella consapevolezza del limite che hanno prove come la testimonianza sull’alterazione del facere pregresso della vittima, accettabili solo nella prospettiva della correzione equitativa di un

valore di base governato da indici obiettivi.

Rispetto a tale modello, il danno esistenziale che guarda unicamente al cambiamento in negativo del facere finisce per elevare ad essenza del risarcimento solo la tecnica attraverso cui nel danno alla salute si procede alla personalizzazione del quantum. Ma così facendo viola l’esigenza di rispettare la pari dignità dei danneggiati e il principio di uguaglianza formale e fa regredire il sistema alla vecchia logica del danno alla vita di relazione, specchio indiretto del patrimonio del danneggiato (8). Secondo tale prospettiva il danno del genitore che abbia perso un figlio dovrebbe misurarsi esclusivamente sul cambiamento della sua agenda esistenziale, con il rischio che, ove il danneggiato continui a svolgere la precedente grigia esistenza con il mero fardello del lutto, potrebbe ottenere un risarcimento inferiore rispetto al danneggiato vittima di ingiurie che riesca a provare il sacrificio di una precedente e sfavillante vita sociale e relazionale. La doverosa e netta critica rispetto a questo modo di concepire il danno esistenziale (9) non esclude, peraltro, che «i pregiudizi [attinenti] all’esistenza della persona – come si legge nelle pronunce delle sezioni unite – poss[a]no per comodità di sintesi essere descritti e definiti come esistenziali», a condizione che si proceda ad una duplice operazione.

Occorre, innanzitutto, liberare l’espressione dal paradigma restrittivo del «non poter più fare», onde abbracciare la complessità del danno che si proietta nel tempo, accompagnando l’esistenza, e che può constare non solo del «non poter più fare», ma anche «del non voler più fare» o «del continuare a fare le stesse cose di prima ma senza più il sapore della vita» o «dell’essere costretti a fare ciò che non si vorrebbe» e chiaramente anche del soffrire per simili restrizioni e condizionamenti.

Ma soprattutto è doveroso che tale pregiudizio rispecchi, nella prova e nel quantum, la pari dignità delle vittime e al contempo la diversità dei danni, cioè il duplice valore dell’uguaglianza formale e sostanziale. Chiaramente, il problema, al di fuori del danno biologico, è la mancanza di un valore che misuri direttamente la normale incidenza esistenziale del tipo di danno sulla vittima, come fa la percentuale di invalidità, ma questo non esclude che si possa comunque identificare un dato aggregante che rifletta l’istanza di pari dignità dei danneggiati.

A tal fine la non diretta misurabilità del pregiudizio in esame induce a risalire dal danno a quegli indici costanti, oggettivamente affidabili e non manipolabili, che sono il tipo e la gravità dell’offesa e le condizioni personali della vittima su cui l’offesa ricade. È palese, infatti, che a parità di tali presupposti, si pensi all’uccisione dell’unico figlio convivente, alla carcerazione ingiustificata per un certo numero di anni, alla violenza carnale subita da una minorenne, non si giustifichi una radicale sperequazione nel quantum riconosciuto fra un danneggiato e l’altro, ferma restando ovviamente la necessaria e doverosa personalizzazione del risarcimento.

3. I diritti inviolabili presi sul serio e la tutela della persona. Gravità dell’offesa o limite della tolleranza?

Chiarito che il danno esistenziale non serve a fondare la regola di risarcibilità ma – ove correttamente interpretato – può contribuire unicamente a definire a fini liquidatori il contenuto del danno da risarcire, il secondo snodo critico con cui si misura la Supr. Corte consiste invece nel consolidamento proprio delle regole di risarcibilità.

Le sentenze del 2003 avevano coordinato l’art. 2059 cod. civ. con la Costituzione, lasciando qualche margine di dubbio sull’alternativa fra tutela dei diritti inviolabili o protezione di generici interessi riconosciuti dalla Costituzione. Le sezioni unite del 2008, senza più alcuna incertezza, incentrano l’interpretazione adeguatrice alla Costituzione non solo dell’art. 2059 cod. civ. ma anche degli artt. 1223 e 1218 cod. civ., sulla categoria dei diritti inviolabili (10).

Il riferimento accoglie il senso più profondo di una dimensione concettuale che non è l’astratta e statica definizione sintetica di un elenco di diritti, bensì è il compendio di un giudizio di valore che si apprezza guardando non solo alla natura dell’interesse, ma anche al grado concreto del suo coinvolgimento.

L’impostazione della Corte consente, dunque, di rispondere alla varietà di quesiti che si erano venuti via via delineando nell’esegesi delle sentenze del 2003: la linea distintiva fra l’ingiustizia del danno e l’art. 2 Cost., l’attitudine dei diritti inviolabili a proteggere a pieno la persona (11); la possibilità di estendere la tutela della sfera personale attraverso i danni non patrimoniali senza nulla concedere ad un protezionismo esasperato che, inseguendo il capriccio individuale, minaccia la coesistenza pluralistica degli interessi e la stessa dimensione sociale dell’uomo.

Se agli occhi del costituzionalista potrebbe apparire del tutto irragionevole anche solo immaginare un accostamento fra l’art. 2 Cost. e l’ingiustizia del danno, essendo impensabile l’illegittimità di norme lesive di generici interessi giuridicamente protetti, non deve stupire che il civilista sia propenso a evidenziare alcuni profili di similitudine tra una clausola che non è indefinitamente aperta e una categoria che non è un genus rigidamente chiuso (12). Ciò nonostante, la complessità e la relatività dei lineamenti dei rispettivi ambiti concettuali non devono offuscare la loro persistente, netta distinzione.

L’ingiustizia del danno abbraccia qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, compreso l’intero universo che si compendia nell’idea di patrimonio, ed è dunque lambita unicamente dai confini della giuridicità nonché dalla giustificazione del rimedio risarcitorio rispetto al tipo di interesse.

I diritti di cui all’art. 2 Cost., viceversa, incarnano una duplice dimensione di valore: l’essenza giuridica dell’essere uomo, governata dal faro della dignità e del libero svolgimento della personalità, e la sua dimensione sociale che implica la necessaria coesistenza pluralistica fra libertà e diritti. Tale dimensione di valore non può ridursi alla cornice formale di singoli diritti, ma implica – come già anticipato – una verifica concreta sul grado di coinvolgimento effettivo dell’interesse. Questa indagine riveste un’importanza primaria, ove si consideri che nelle più mature riflessioni in materia di diritti della personalità – a partire da von Gierke (13) per giungere al bel libro di Giorgio Resta (14) – si sottolinea come la primaria differenza tra personalità e patrimonialità sia «di grado e non [o non solo] di natura». È evidente, allora, come una nozione quale quella dell’inviolabilità nella quale è immanente il richiamo al grado di coinvolgimento dell’interesse non lasci vuoti nella tutela civile della persona, ma anzi si adatti meglio delle categorie tradizionali alle esigenze dinamiche di difesa dell’uomo. Non solo i diritti tradizionalmente inviolabili nonché quelli che gradualmente si affermano rispetto a nuove forme di aggressioni nei confronti dell’uomo rientrano nella categoria, ma vi si ascrivono anche offese che in concreto hanno una tale rilevanza da colpire l’essenza più profonda dei valori dell’uomo nonostante apparentemente aggrediscano interessi patrimoniali. Si pensi ai casi dell’uccisione del cane del non vedente o al rifiuto di installare l’ascensore nel condominio in cui abiti un portatore di handicap che nella sostanza e in concreto colpiscono il libero svolgimento della personalità e la libertà personale.

I diritti inviolabili sono dunque in grado di segnare in maniera dinamica e non rigidamente formale e astratta l’effettiva linea di discrimine fra persona e patrimonio, relegando quest’ultimo al di fuori dell’art. 2 Cost. nel contenitore generico dell’ingiustizia del danno.

Guardare al grado concreto di coinvolgimento dell’interesse, d’altro canto, non serve solo a riportare alla persona offese la cui rilevanza effettiva sia tale da colpire i valori fondamentali dell’uomo, ma consente anche di impedire che la cornice formale del diritto crei un eccesso di tutela rispetto ad esigenze che in concreto non giustificano il richiamo all’essenza intangibile dell’uomo. L’impedimento ad uscire di casa per pochi minuti o ore a causa dello svolgimento di lavori pubblici non consente – ad esempio – di chiamare in causa la libertà personale.

Il giudizio concreto sull’inviolabilità finalizzato a garantire la coesistenza pluralistica degli interessi è un risultato profondamente radicato nel pensiero dei cultori del diritto costituzionale (15) e che deve penetrare anche nel diritto civile. Va, dunque, salutata come assolutamente rivoluzionaria la sua apparizione nelle pronunce delle sezioni unite sulla scia della riflessione della dottrina che aveva proposto un adattamento di tale impostazione al contesto privatistico e alle esigenze specifiche del risarcimento dei danni non patrimoniali (16).

E infatti se in generale per applicare le conseguenze che discendono dall’inviolabilità dell’interesse occorre guardare al grado del suo coinvolgimento, a fortiori in un contesto come quello dei danni non patrimoniali nel quale manca il filtro oggettivo del mercato e nel quale domina la sensibilità soggettiva, tale indagine, che si traduce in una verifica di minima serietà dell’offesa, serve contestualmente ad inferire un pregiudizio oggettivamente giustificato. Restano dunque escluse pretese bagattelari o frutto della mera idiosincrasia soggettiva che, anziché tutelare la persona, comprimono la libertà degli altri.

Il messaggio della Corte, in altri termini, non sposa l’idea che si debba effettuare un accertamento in positivo della gravità dell’offesa. Viceversa intende evitare che, dietro apparente cornice formale di diritti della persona, si celino pretese irrilevanti che pregiudicano il principio posto a fondamento del pluralismo, cioè la tolleranza (17) (18). In sostanza, si tratta di escludere in negativo pretese capricciose legate ad offese minime che urtano solo l’ipersensibilità individuale, non colpiscono il nucleo inviolabile dell’interesse e sono inidonee a superare il limite della tollerabilità. In tal modo, si crea una naturale linea distintiva fra i banali attriti quotidiani e il mobbing, fra le inevitabili discussioni familiari e l’illecito endofamiliare, fra la fisiologia della tolleranza e la patologia dell’illecito che genera reazioni oggettivamente motivate. Non si delinea, pertanto, alcuna discriminazione fra danni patrimoniali e danni non patrimoniali, ma al contrario si prospetta un perfetto sodalizio fra la natura pluralistica dei diritti inviolabili, che coinvolgono il principio della tolleranza e le esigenze specifiche dei danni non patrimoniali la cui obiettiva fondatezza si inferisce da un minimo di serietà dell’offesa.

Non è un caso che quel medesimo principio della tolleranza che i teorici del diritto costituzionale pongono a fondamento del pluralismo dei diritti inviolabili e che i filosofi del diritto compendiano nell’esigenza di «incamerare una minima quota di veleno verso se stessi» sia lo stesso principio a cui empiricamente si rivolgono, di recente, i francesi nel tentativo di controllare il dilagare dei prejudices morales (19).

4. La falsa alternativa fra monismo e pluralismo delle voci di danno e il problema reale della trasparenza dei criteri di liquidazione.

Il terzo e forse più problematico snodo critico delle sezioni unite riguarda il tema ingiustamente più trascurato nella materia dei danni non patrimoniali, vale a dire la liquidazione.

Le pronunce gemelle hanno il pregio di denunciare in maniera disincantata il meccanismo dell’automatica sommatoria delle voci di danno o addirittura della creazione di nuovi pregiudizi quale velo formale per celare mere duplicazioni o un ingiustificato incremento del risarcimento.

Ma se questa è la forza dell’argomentazione della Corte, la sua debolezza è di reagire al formalismo delle voci di danno con un approccio ugualmente formalistico che si limita a rivendicare il monismo nella liquidazione.

Per conseguire tale risultato senza rinnegare le categorie tradizionali, le sezioni unite imputano le medesime a distinte fattispecie e conferiscono loro un contenuto tanto esteso da assorbire l’integralità del pregiudizio risarcibile: il danno morale, dilatato sino ad abbracciare un pregiudizio che accompagna l’esistenza, viene riferito all’illecito da reato; il danno esistenziale, comprensivo delle sofferenze, viene legato alla lesione dei diritti fondamentali; il danno biologico, esteso al dolore, viene ad esaurire gli effetti della lesione del diritto alla salute.

Sennonché il problema della liquidazione non risiede solo nella descrizione del contenuto del danno e, dunque, nell’alternativa fra una liquidazione unitaria che abbraccia un contenuto complesso o una quantificazione per voci che cerca di scindere la complessità del contenuto. L’essenza dell’operazione consiste, invece, nel dare trasparenza ai criteri di liquidazione e al loro rapporto con il quantum liquidato.

Solo in tal modo si creano i presupposti per operare un confronto fra i precedenti giurisprudenziali che è il solo itinerario capace di sottrarre il momento della conversione dei criteri liquidativi in denaro al più totale arbitrio e conseguentemente di fornire una motivazione al quantum (20).

Per affrontare il problema della quantificazione occorre, dunque, identificare ab imis i criteri di liquidazione che riflettono sia il contenuto descrittivo del danno sia le funzioni del risarcimento.

Orbene, tralasciando per il momento l’ambito peculiare del danno biologico, le altre tradizionali componenti del danno, cioè il danno morale e il c.d. danno esistenziale, presentano sul piano della liquidazione un ambito di criteri condivisi – costituiti dal tipo e dalla gravità dell’offesa nonché dalle condizioni personali della vittima – e taluni criteri che invece incidono solo sull’una o sull’altra voce di danno e possono dare risalto a possibili differenti funzioni risarcitorie.

In particolare, la reazione emotiva più immediata nei confronti dell’illecito (quello che tradizionalmente è stato chiamato il danno morale) risente non solo dei criteri liquidativi sopra enucleati, ma anche delle circostanze di fatto con cui si verifica l’impatto lesivo nonché dei profili soggettivi dell’illecito, attraverso i quali si delinea una possibile funzione individual-deterrente del risarcimento in aggiunta alla funzione basilare di tipo solidaristico-satisfattiva.

D’altro canto, l’eventuale proiezione negativa di più lungo periodo sull’esistenza del danneggiato, il c.d. pregiudizio esistenziale come in precedenza definito, va provato anch’esso nel suo nucleo essenziale, riflesso dell’uguaglianza formale, attraverso i criteri comuni del tipo e della gravità dell’offesa nonché delle condizioni personali della vittima. Ai fini, però, della personalizzazione del risarcimento e nel rispetto dell’uguaglianza sostanziale dà rilevanza anche all’autonomo criterio dei cambiamenti effettivi intervenuti nella vita del danneggiato.

La presenza dunque di criteri che sono in parte comuni, ma in parte distinti fra le suddette voci di danno esclude che si possa accedere ad una liquidazione unitaria priva di una minima articolazione interna. Al contrario, occorre esplicitare nella singola fattispecie se il danno si esaurisce con l’impatto emotivo negativo o se vi sia una proiezione nel tempo sull’esistenza della vittima e, in tal caso, si deve rendere palese in quale proporzione si sia tenuto conto dell’impatto emotivo più immediato rispetto all’insieme di sofferenze e di peggioramento della qualità della vita che invece si protraggono nel tempo. Solo in tal modo si dispone di due basi di valore rispetto alle quali si può ulteriormente mettere in evidenza l’incidenza di criteri che si riflettono sull’una o sull’altra dimensione.

In definitiva, la trasparenza sul peso economico che hanno avuto i diversi criteri di liquidazione è presupposto imprescindibile per un confronto tra i precedenti giurisprudenziali, che è a sua volta condizione necessaria sia per rendere effettivo il principio della pari dignità delle vittime che almeno in parte deve ispirare il risarcimento sia più in generale per dare una motivazione al quantum. Di conseguenza, il messaggio della Corte volto a superare gli automatismi nella sommatoria delle voci di danno e finalizzato ad una liquidazione unitaria non può in alcun modo tradursi in un numero oscuro e, nel necessario coordinamento con le esigenze della trasparenza, vede persistere un’impronta di quello che era il tradizionale danno morale accanto a un pregiudizio che si proietta più a lungo sull’esistenza del danneggiato.

L’autonomia del danno morale, d’altro canto, va altresì ribadita anche a latere del danno alla salute né tale affermazione contrasta con il rilievo della Corte secondo cui «determina […]duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale […] sovente liquidato in percentuale del primo». Il rilievo della Supr. Corte, infatti, è da condividere ma non in quanto critica tout court alla sommatoria fra le due voci di danno, bensì come contestazione del metodo di liquidazione del danno morale quantificato in una percentuale del danno alla salute. Simile tecnica, infatti, tende a risarcire non l’emozione che deriva dall’impatto lesivo (cioè il danno morale nell’accezione tradizionale) ma il dolore fisico e morale che accompagna l’invalidità temporanea e permanente ed è direttamente proporzionato ad essa. Ciò chiaramente non vuol dire che debba sparire a latere del danno biologico il danno morale, inteso invece come reazione emotiva rispetto all’impatto lesivo e che non dipende dall’invalidità temporanea e permanente, ma da altri criteri: da come il danneggiato percepisce la lesione; dalle circostanze concrete in cui si viene a verificare l’illecito e dalla stessa gravità soggettiva del danneggiante, che può attivare la componente deterrente. La reazione emotiva, infatti, può ben essere elevata dinanzi, ad esempio, ad un sanguinamento copioso di una ferita, che poi magari guarisce del tutto, o in una situazione in cui la vittima, pur ferita non gravemente, viva l’esperienza di sfuggire ad un disastro o alla grossolana superficialità o addirittura al dolo del danneggiante.

In altre parole è proprio la diversità di criteri di liquidazione della componente emotiva rispetto al danno biologico che giustifica l’opportunità di mantenere distinte le due voci di danno così come è, invece, l’uniformità nel metodo di liquidazione che porta ad assorbire nel danno biologico il dolore che accompagna ed è proporzionato ai postumi.

Analogamente, l’attitudine del danno biologico a risarcire tutte le conseguenze pregiudizievoli correlate e proporzionate all’invalidità temporanea e permanente spiega l’assoluta irragionevolezza di proporre a latere di tale pregiudizio un autonomo danno esistenziale. Il danno alla salute, infatti, ricomprende da sempre nella sua nozione le ricadute esistenziali, tanto da essere stato un modello per tale pregiudizio, e le include non solo nella componente che personalizza il risarcimento, ma già nel nucleo riflesso nel concetto di postumo, che considera in quale misura la minorazione della salute incida negativamente sul quotidiano della vittima. Si avrebbe, pertanto, sicura duplicazione sommando il danno esistenziale al danno alla salute (21).

5. Fiori di fuoco, fiori di ghiaccio e prospettive future.

L’intervento delle sezioni unite mostra un’importanza storica sotto molteplici aspetti.

Spegne il fiore di fuoco della teoria del danno esistenziale.

Tale concezione, dopo aver trasmesso con tutta la passione dei suoi sostenitori (22) il bisogno di colmare la vecchia lacuna dell’art. 2059 cod. civ., oggi, una volta che il vuoto di tutela è stato superato con le pronunce del 2003, rischia con quella stessa fiamma di bruciare il sistema e di protrarre un’inutile battaglia a favore del patrimonio e non della persona.

Scioglie il fiore di ghiaccio (23) dell’antiesistenzialismo.

L’avversione di chi ha ostracizzato in assoluto il termine, rivendicando la valenza puramente negativa della categoria dei danni non patrimoniali (24), si infrange dinanzi all’esigenza reale di provare e di quantificare il danno e dunque di dargli un volto positivo che non necessariamente deve rinunciare al potere descrittivo di un’espressione, in cui può compendiarsi il senso di un riflesso negativo che accompagna l’esistenza della vittima.

Ma soprattutto la Cassazione mostra l’attitudine del civilista ad appropriarsi, con la massima maturità e concretezza, dei grandi valori della Costituzione e delle straordinarie risorse della categoria dei diritti inviolabili. Alle critiche e allo scetticismo nei confronti dei giudici, propensi a moltiplicare i diritti poiché spesso irretiti dal senso di giustizia del caso concreto, deve subentrare un fitto dialogo fra dottrina e giurisprudenza per affinare il passaggio dalla ricchezza teorica dei diritti inviolabili alla loro proiezione nel mondo reale.

Infine, le sezioni unite rompono il velo del formalismo nominalistico delle voci di danno e spingono a guardare al contenuto effettivo del pregiudizio da risarcire. Il messaggio della Corte favorevole ad una liquidazione unitaria del danno, tuttavia, non deve condurre né ad un numero oscuro né tanto meno ad una bieca riduzione del quantum. Al contrario, è necessaria sempre maggiore trasparenza nell’indicazione dei criteri di liquidazione adottati e la massima attenzione nel coprire integralmente il danno da risarcire. Dalla proliferazione dei danni o dal fascino nominalistico delle categorie si deve, dunque, procedere allo studio e alla realizzazione di un metodo di trasparenza nella quantificazione dei danni non patrimoniali che prelude alla comparazione con i precedenti, onde sottrarre all’arbitro la fase della liquidazione.

Solo in tal modo è possibile evitare che la raffinata costruzione dei diritti inviolabili e della tutela della persona sia edificata su un terreno incerto e paludoso, insinuando «a pocket of irrationality and impredictability» (25) che inficia – come si denuncia oltreoceano – gli equilibri del sistema della responsabilità.

NOTE:

(1) Cass., 12.5.2003, n. 7281; Cass., 12.5.2003, n. 7283; Cass., 31.5.2003, n. 8827; Cass., 31.5.2003, n. 8828, in Foro it., 2003, I, 2272 ss., con la nostra nota, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente; Corte cost., 11.7.2003, n. 233, ibidem, 2201 ss., con la nostra nota, La Corte costituzionale e il danno alla persona «in fieri».

(2) Cendon-Ziviz (a cura di), Il danno esistenziale, Una nuova categoria della responsabilità civile, Giuffrè, 2000, passim.

(3) Cass., 31.5.2003, n. 8828 e Cass., 31.5.2003, n. 8827, cit., 2272 ss.; Cass., 12.12.2003, n. 19057, in Resp. civ. e prev., 2004, 106, con nota di Facci, Prime applicazioni del «nuovo» danno non patrimoniale; Cass., 29.7.2004, n. 14488, in Foro it., 2004, I, 3327 ss., con nota di Bitetto, Il diritto a «nascere sani»; Cass., 15.7.2005, n. 15022, ivi, 2006, I, 1344 ss.; Cass., 9.11.2006, n. 23918, ivi, 2007, I, 71 ss., con note di Palmieri e La Notte; Cass., 20.4.2007, n. 9510, in Mass. Foro it., 2007.

(4) Ci sia consentito rinviare a Navarretta, I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, inI danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Giuffrè, 2004, 9 ss.

(5) Ziviz, L’ingiustizia e il danno esistenziale, in Dal Lago-Bordon (a cura di), La nuova disciplina del danno non patrimoniale, Giuffrè, 2005, 105 ss.

(6) Cendon, Voci del verbo fare, in Resp. civ. e prev., 2003, 1267 ss.

(7) Cfr. in particolare Busnelli, Il danno biologico dal «diritto vivente» al «diritto vigente», Giappichelli, 2001, passim.

(8) Cfr. in tal senso sempre Navarretta, I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 42 ss.

(9) La suddetta concezione del danno esistenziale traspare raramente nelle pronunce della Cassazione antecedenti alle sezioni unite. Cfr. in particolare Cass., sez. un., 24.3.2006, n. 6572, in Resp. civ. e prev., 2006, 1041 ss., con note di Bertoncini, Demansionamento e onere della prova dei danni; di Bilotta, Attraverso il danno esistenziale, oltre il danno esistenziale; di Rossetti, Danno esistenziale, una questione lontana dall’essere risolta, ivi, 1477 ss., che incorre in un evidente paradosso: per un verso, nel respingere il danno in re ipsa, proclama un necessario rigore nella dimostrazione del danno esistenziale; per un altro verso, limitandosi a chiedere la prova testimoniale di aver modificato le proprie scelte esistenziali, a prescindere dal tipo di offesa subita, evidenzia una severità puramente di facciata, i cui effetti restrittivi si apprezzano soltanto nella decisione del singolo caso.

(10) Cfr. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Cedam, 1996, passim nonché, a favore dell’idea che i diritti inviolabili siano la categoria coinvolta nell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione delle sentenze del 2003; Ead., Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente, cit., 2272 ss.; Ead., La Corte costituzionale e il danno alla persona «in fieri», cit., 2201 ss.; Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 18 ss. In tal senso anche Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di Cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp., 2003, 827.

(11) Dubita di ciò Scalisi, Danni alla persona ed ingiustizia, in Riv. dir. civ., 2007, 151.

(12) Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. 8828/2003, in Resp. civ. e prev., 2003, 687, che dapprima afferma di confidare in una «lettura […] non angusta della Costituzione» e poi conclude che all’art. 2059 cod. civ. si applicano tutti i presupposti dell’art. 2043 cod. civ. compresa l’ingiustizia. Ha posto in evidenza la vicinanza fra l’ingiustizia del danno e l’art. 2 Cost. anche Patti nella Relazione tenuta all’incontro di Padova del 16 dicembre 2008 su «Il danno esistenziale dopo le recenti pronunce a sez. un. della Corte di cassazione».

(13) von Gierke, Deutsches Privatrecht, Band I, Allgemeiner Teil und Personenrecht, Munchen-Leipzig, 1936, 706.

(14) Così impeccabilmente Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, Jovene, 2005, 102.

(15) Cfr. per tutti Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, 1992, 32 ss.

(16) Cfr. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, cit., 51 ss.

(17) Cfr. Navarretta, Il danno alla persona fra solidarietà e tolleranza, in Resp. civ. e prev., 2001, 801 ss.; Ead., Art. 2059 c.c. e valori costituzionali: dal limite del reato alla soglia della tolleranza, in Danno e resp., 2002, 872 ss., nonché Ead., I danni non patrimoniali nella responsabilità extracontrattuale, cit., 28 ss., dove per l’appunto avevamo messo in risalto la distinzione fra accertamento in positivo della gravità e accertamento in negativo sulla non futilità che si fonda sulla soglia della tolleranza.

(18) La tolleranza può avere in campo giuridico una pluralità di significati. Per un’ampia panoramica sulla sua rilevanza in campo civilistico, anche con profili diversi da quelli illustrati nel testo, è doveroso il richiamo a Patti, Profili della tolleranza in diritto privato, Jovene, 1978, 5 ss.

(19) Lapoyade Deschamps, L’avenir de la responsabilità civile: quelle(s) reparation(s)?, in La responsabilità civile à l’aube du XXI siècle, in Responsabilitè civile et assurances, 2001, 65; Seriaux, L’avenir de la responsabilité civile: quel (s) fondement(s)?, ibidem, 59.

(20) Ci sia consentito richiamare il nostro saggio Funzioni del risarcimento e quantificazione dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. e prev., 2008, 500 ss., nonché la Premessa metodologica alla Guida alla liquidazione dei danni non patrimoniali, in I danni non patrimoniali, cit., 175 ss.

(21) Quanto alla stessa nozione di danno biologico, essa non deve ritenersi alterata dall’affermazione delle sezioni unite secondo cui l’accertamento medico-legale non sarebbe «strumento esclusivo e necessario» per il suo accertamento. Tale constatazione, infatti, per un verso, non esclude il carattere imprescindibile dell’accertamento della patologia e, per un altro verso, consente di prescindere dalla consulenza medico-legale solo nei casi in cui vi sia una precisa ragione che ne escluda o la possibilità o l’utilità. Fuori di tali ipotesi, viceversa, essendo l’accertamento medico-legale che converte gli effetti di una patologia sul complessivo benessere della vittima in postumi temporanei o permanenti, cioè in valori cardinali, il miglior metodo scientifico per stimare il danno alla salute, il mancato ricorso al medesimo, senza una congrua motivazione, sarebbe certamente inficiato da irragionevolezza e, dunque, impugnabile in Cassazione. In altri termini, il giudice non può senza una motivata ragione non avvalersi dei risultati della scienza medico-legale che consente di paragonare su una base omogenea (la percentuale di invalidità) un caso con l’altro, agevolando enormemente il processo di conversione monetaria del danno alla salute, che può limitarsi ad attribuire un valore all’unità di misura dell’invalidità, fermo restando l’adattamento equitativo del risarcimento.

(22) Emblematico il titolo del saggio di Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. 8828/2003, cit., 685 ss.

(23) L’immagine è ripresa da Cassese, Il mondo nuovo del diritto. Un giurista e il suo tempo, Cedam, 2008, 67.

(24) Ponzanelli, Il risarcimento integrale senza il danno esistenziale, Cedam, 2008, passim.

(25) Niemeyer, Awards for pain and suffering: the irrational centerpiece of our tort system, 90 Va. L. Rev. 1401, 2004, 3.

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