ISSN 2239-8570

Il diritto alla diagnosi preimpianto dell’embrione, di Antonio Gorgoni

Tribunale Cagliari, sentenza 22 settembre 2007;

Trib. Firenze, ordinanza 19 dicembre 2007;

TAR Lazio, sentenza 21 gennaio 2008, n. 398;

Linee guida del Ministero della Salute

Sommario:

  1. Il caso e il problema.

  2. La tesi che nega il diritto alla diagnosi preimpianto: critica.

  3. La tesi che ammette il diritto alla diagnosi preimpianto.

  4. Incongruenze della legge 40/2004 acuite dalla sentenza e dalle nuove Linee guida.

  5. La rilevanza giuridica dell’embrione: tecniche di tutela.

1. Il caso e il problema.

Una coppia di coniugi, accertata la “sterilità di coppia”, accedeva alla procreazione medicalmente assistita (p.m.a.), ottenendo la fecondazione omologa in vitro di un embrione; sfortunatamente durante la gravidanza veniva scoperta la presenza di una grave patologia del feto (la beta-talassemia) che induceva la gestante, a causa di una sopravvenuta sindrome ansioso-depressiva, ad abortire. Trascorso del tempo, si procedeva alla formazione di un nuovo embrione ma questa volta la coppia chiedeva la diagnosi preimpianto, perchè l’incertezza sullo stato di salute dell’embrione aveva ingenerato, nella madre genetica, una grave sindrome depressiva.Tale diagnosi consente di accertare, mediante il prelievo di una o due cellule dall’embrione, ancora non inserito nell’utero, l’eventuale presenza di malattie genetiche, permettendo così alla donna di compiere una scelta consapevole in ordine all’inizio della gravidanza(1).Il medico, tuttavia, non dava seguito alla richiesta, opinando che l’art. 13 l. n. 40/2004 permetterebbe interventi sull’embrione unicamente al fine diagnostico e terapeutico per la tutela della sua salute e sviluppo. Nel caso di specie, invece, il test genetico non avrebbe curato l’embrione, potendo, al contrario, danneggiarlo in quanto invasivo.Inoltre, secondo una prospettata interpretazione dottrinale della legge 40(2), la diagnosi preimpianto sarebbe inutile, in quanto l’obbligo dell’ “unico e contemporaneo impianto degli embrioni formati” impedirebbe di abbandonare l’embrione risultato malato per accogliere solo quelli eventualmente sani.Si procedeva, quindi, alla crioconservazione dell’embrione, operazione eccezionalmente consentita per “causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione” (art. 14 co. 3 l. n. 40/2004), condizione esistente nella fattispecie concreta.I coniugi, pertanto, agivano in giudizio chiedendo, in via principale, la condanna del medico all’esecuzione della diagnosi preimpianto e, in via subordinata, che fosse sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 per violazione degli artt. 2 e 32 Cost., nella parte in cui la norma ordinaria vieta tale tipo di diagnosi anche quando questa sia giustificata dalla necessità di tutelare il diritto alla salute della donna(3).Occorre rilevare che la legge 40 non contiene una norma che ammetta esplicitamente tale diagnosi; invero, secondo una diffusa interpretazione(4), la legge vieterebbe questa pratica indirettamente, con il risultato che i medici rifiutano di effettuarla per non incorrere nelle severe sanzioni comminate dall’art. 13 coo. 4 e 5 e dall’art. 14 coo. 6 e 7.La sentenza in commento(5), pronunciatasi sulla vicenda, ha riconosciuto, invece, attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge n. 40/2004 sulla p.m.a., il diritto di ottenere la diagnosi preimpianto sull’embrione. Conseguentemente ha accolto la domanda principale e ha rigettato l’interpretazione che, incentrata sull’errato assunto secondo cui la legge 40 sarebbe ispirata dall’unica ratio dell’assoluta tutela dell’aspettativa di vita dell’embrione, negava il diritto alla diagnosi preimpianto. E’ opportuno ripercorrere gli argomenti sottesi a quest’ultima interpretazione per svelarne l’incongruenza.

2. La tesi che nega il diritto alla diagnosi preimpianto: critica.

La lettura combinata degli artt. 13 e 14 co. 1 della legge 40 potrebbe portare l’interprete a desumere dal dettato normativo il divieto della diagnosi preimpianto. Questo, in sintesi, il percorso ermeneutico seguito.In primo luogo si osserva che questa diagnosi, svolgendosi attraverso una tecnica invasiva, contrasterebbe con l’art. 13 co. 2, il quale ammette interventi sull’embrione aventi “finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche.Évolte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso”. Il prelievo di cellule, invece, potendo determinare la fine dell’embrione, dovrebbe ritenersi vietato(6). Oltretutto, si aggiunge, l’eventuale scoperta di una malattia genetica, quale la betalassemia, non permette, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, di intervenire con un trattamento curativo. L’embrione, quindi, sarebbe violato al di fuori della finalità terapeutica espressamente selezionata dal legislatore.In coerenza con l’art. 13, argomenta sempre la tesi in esame, il decreto ministeriale 21 luglio 2004 (contenente le Linee guida in materia di PMA)(7), emanato in esecuzione dell’art. 7 l. 40, stabilisce che, se la coppia chiede, ai sensi dell’art. 14 co. 5 l. n. 40/2004, informazioni “sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero”, ogni indagine medica “dovrà essere di tipo osservazionale”(8). La norma del decreto – di recente modificata come si vedrà in seguito – intende escludere proprio gli interventi diagnostici invasivi in quanto contrastanti con la tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione; tuttavia, come chiariremo meglio pi avanti, il fatto che la patologia ricercata con la diagnosi sia incurabile non è elemento decisivo per negare la diagnosi stessa.In secondo luogo, la tesi qui sottoposta a critica cerca di trarre ragione anche dall’art. 13 co. 3 let b) nella parte in cui vieta la selezione degli embrioni a scopo eugenetico(9), ossia per migliorare le future generazioni attraverso l’eliminazione di quegli embrioni colpiti da difetti genetici. Ciò avverrebbe proprio consentendo alla coppia di conoscere lo stato di salute dell’embrione al fine di rifiutarne, eventualmente, l’impianto ove dovessero palesarsi patologie genetiche che interesseranno il nascituro nel grembo materno(10).La legge sulla procreazione assistita, secondo la prospettiva in esame, avrebbe inteso regolare le tecniche volte a superare la patologia che produce la sterilità di coppia, consentendo a quest’ultima di avere figli, senza attribuirle però il diritto di selezionare i nascituri sani scartando quelli malati; del resto, si sottolinea, la Costituzione non prevede il diritto dei genitori ad avere un figlio così come lo desiderano. Inoltre, ancora, la Cassazione ha negato il diritto di non nascere malato(11), diritto che se esistesse legittimerebbe la selezione degli embrioni sani. La conclusione non cambierebbe, si sostiene, anche effettuando un parallelo tra la legge 40 e la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza in punto di selezione del nascituro. Quest’ultima, infatti, consente l’aborto non per realizzare il desiderio della gestante di avere un bambino sano, bensì quando “la prosecuzione della gravidanza (É) comporterebbe un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica” (art. 4 l. n. 194/1978); dunque, come noto, è solo il pericolo per la salute della madre, e non già le condizioni di salute del nascituro, a legittimare l’interruzione della gravidanza. Nell’insussistenza del diritto di avere un figlio sano e del diritto di non nascere malato, dunque, non sarebbe possibile scegliere l’embrione sano sacrificando quello malato(12).Si può replicare come non sia corretto ricondurre la diagnosi preimpianto all’eugenetica qualora se ne distinguano le rispettive e autentiche finalità: la prima consiste in un’attività volta alla tutela della salute dell’embrione e della madre genetica, mentre la seconda persegue l’unico precipuo obiettivo di selezionare persone sane.Se, pertanto, alla luce di questo distinguo, la donna può interrompere, a tutela della propria salute, la gravidanza qualora il feto sia malformato, ella deve poter parimenti rifiutare il trasferimento nel proprio grembo dell’embrione malato (il quale di conseguenza dovrà essere congelato) scegliendo, invece, di accogliere quell’embrione che, all’esito della diagnosi preimpianto, sia apparso sano. Riesce, infatti, difficile comprendere per quale ragione giuridica(13), o in virtù di quale differenza tra le due situazioni concrete, non si possano estendere le regole espresse dalla legge 194/1978 ai casi in cui il concepimento sia frutto delle tecniche di procreazione artificiale.Tale riflessione, rafforzata dal richiamo della legge 194 da parte dell’art. 14 co. 1 l. 40, non è tuttavia unanimemente condivisa in giurisprudenza e in dottrina(14) ove un orientamento propende per un’interpretazione diversa del richiamo normativo.Quest’ultimo, nell’intenzione del legislatore, avrebbe lo scopo di impedire che prenda campo la tesi secondo cui una volta intrapresa volontariamente e consapevolmente la gravidanza conseguente alla procreazione assistita non sia più possibile abortire pur ricorrendone i presupposti. Questa conclusione poteva essere argomentata dall’art. 9 l. n. 40/2004 il quale escludendo, in caso di violazione del divieto di procreazione eterologa (art. 4 u.c.), l’azione di disconoscimento della paternità, l’impugnazione per difetto di veridicità (art. 263 c.c.) e impedendo alla madre di avvalersi della facoltà di cui all’art. 30 co. 1 d.p.r. 3.10.2000. n. 396, afferma la centralità del principio di responsabilità.Ora, secondo la lettura in esame, si poteva pensare che, in mancanza del richiamo alla legge 194/1978, il principio di responsabilità(15) espresso dall’art. 9 l. 40 dovesse operare anche durante la gravidanza successiva alla fecondazione assistita con la conseguenza che la legge 194/1978 avrebbe potuto essere applicata in relazione alla procreazione solo naturale e non anche artificiale(16). Dunque, si osserva, il richiamo normativo alla legge 194 avrebbe la funzione di “dare certezza” in ordine all’esistenza del diritto di ricorrere all’aborto, sussistendone i presupposti, anche quando la gravidanza sia dipesa dalla p.m.a.(17).Le considerazioni che precedono, pur apparendo prima facie persuasive, contrastano invece con il diritto alla salute della madre genetica, diritto prevalente rispetto all’interesse dell’embrione malato a nascere e a non essere discriminato rispetto all’embrione sano. A tal proposito si rivela fondamentale l’evoluzione giurisprudenziale che ha interessato il concetto di salute, il quale non attiene soltanto al benessere fisico ma anche mentale e sociale(18). “L’idea di salute incorpora così gli aspetti psichici e acquista una connotazione soggettiva che chiama in causa l’intera personalità”(19); viene quindi in rilievo uno “stato di completo benessere che coinvolge gli aspetti interiori della vita quali avvertiti e vissuti dal soggetto stesso”(20).Questi è l’unico in grado di valutare se un atto medico sia funzionale alla propria concezione di salute e dunque alle proprie “personali ed insindacabili aspettative di vita”(21). Non può, pertanto, essere condivisa la tesi secondo cui la madre genetica, per ottenere il trasferimento nel proprio utero degli embrioni formati (il cui numero non può essere superiore a tre), deve accettare il trasferimento anche di quello affetto da una patologia. Opinando diversamente, la madre genetica dovrebbe fronteggiare la seguente alternativa: abbandonare tutti gli embrioni, compresi quelli sani, oppure subirne l’integrale trasferimento accettando il pericolo per la propria salute che, secondo la propria insindacabile valutazione, la gestazione di un nascituro malato potrebbe determinare.Per evitare questo esito ingiusto, sembra corretto ritenere che il conflitto tra la salute della madre e l’interesse del nascituro a nascere, risolto dal legislatore con la legge 194/1978, si riproduca quando l’embrione si trovi fuori dall’utero; se quanto detto corrisponde al vero, il conflitto deve essere risolto attribuendo prevalenza alla salute della madre genetica, anche se ciò comporti il rifiuto degli embrioni malati e l’accettazione soltanto di quelli sani. Ne consegue che la lettura dell’art. 13, dalla quale si è inteso ricavare il divieto della diagnosi preimpianto, deve essere respinta, soprattutto perchè essa isola, come vedremo, tale disposizione da altre norme contenute nella legge 40 e dalla disciplina sull’interruzione volontaria della gravidanza.

3 La tesi che ammette il diritto alla diagnosi preimpianto.

Nella sentenza in commento il giudice svolge con lucidità un articolato ragionamento che muove dalla lettera dell’art. 13 per poi rileggere questa norma alla luce del sistema, operazione che ha il pregio di svelare, nel caso di specie, le plurime rationes della legge 40 sulle quali ci soffermeremo più avanti per ragioni di ordine espositivo.Innanzi tutto, osserva il tribunale, colpisce che la legge 40, nonostante sia stata molto analitica nel porre taluni divieti(22) a tutela dell’embrione, non abbia espressamente sancito il divieto della diagnosi preimpianto(23). Questa constatazione assume rilievo, al fine di ammettere tale diagnosi, non solo diretto, ma anche indiretto, ove si richiamino i principi del diritto penale. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, considerando che la violazione dell’art. 13 è punita con la sanzione penale, ove si riconducesse a tale norma anche il divieto di diagnosi preimpianto ne seguirebbe la violazione del principio di tassatività caratterizzante la materia penale, prescritto per evitare l’arbitrio del giudice: nullum crimen sine lege poenali scripta et stricta.Dopo questa precisazione, significativa ma non determinante per legittimare la diagnosi preimpianto(24), il tribunale rileva come non vi sia alcuna attinenza tra la nozione di “ricerca clinica”, cui si riferisce l’art. 13 co. 2, e l’esame clinico diretto a diagnosticare un eventuale stato patologico dell’embrione. Con il primo termine si intende “quell’indagine sistematica volta ad accrescere le conoscenze che si posseggono nell’ambito della Ôclinica’ e cioè di quella branca della medicina volta alla diagnosi, allo studio e alla cura delle malattie attraverso l’osservazione diretta degli ammalati”. La diagnosi preimpianto è compiuta, invece, allo scopo di proteggere la futura gestante, scongiurando il pericolo per la sua salute, pericolo che può provenire dalla presenza di malattie o di malformazioni del feto.La ricerca e la diagnosi preimpianto, dunque, pur coinvolgendo entrambe l’embrione, generano conflitti di interessi distinti e, in quanto tali, trattati – e qui è ravvisabile la ratio decidendi della sentenza – diversamente dalla legge 40.L’art. 13 co. 2, secondo il tribunale, in coerenza con la rilevanza attribuita al concepito dall’art. 1, ha risolto in modo assoluto(25) a favore di quest’ultimo il conflitto tra la sua aspettativa di vita “e l’interesse della collettività alla libertà di ricerca e di sperimentazione scientifica”(26); la prima norma protegge i diritti fondamentali del concepito alla propria incolumità fisica, identità e dignità.Al contrario, la diagnosi preimpianto coinvolgerebbe non il rapporto tra embrione e collettività, bensì il distinto ambito della relazione tra l’aspettativa di vita dell’embrione, che potrebbe essere pregiudicata da un accertamento invasivo, e il diritto alla salute della madre genetica. Si ha un conflitto tra due posizioni giuridiche (della madre genetica e dell’embrione) entrambe tutelate dalla Costituzione(27), conflitto che, tuttavia, non è stato risolto dalla legge 40 a favore dell’embrione.Su ciò occorre soffermarsi, rilevando come il tribunale abbia impostato correttamente il contrasto che può coinvolgere la madre genetica e l’embrione, richiamando, da una parte, la più intensa tutela attribuita dall’ordinamento a chi “è già persona, come la madre”, rispetto a chi “persona deve ancora diventare”(28), come l’embrione, e dall’altra il principio del consenso informato, la cui attuazione è condizione essenziale affinchè si realizzi la protezione della salute.Questi due riferimenti alla diversità di posizione giuridica e al consenso informato, pacifici in dottrina e in giurisprudenza, sono corroborati nella parte finale della sentenza in cui il giudice perviene alla conclusione secondo cui la legge 40 è ispirata da più criteri in dipendenza del tipo di conflitto che viene in rilievo(29). Ripercorriamo sinteticamente questo iter argomentativo.L’art. 6 co. 1 l. n. 40/2004 stabilisce che “in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione”, il medico deve dare alla coppia una serie di informazioni dettagliate quali quelle inerenti i “possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse (É) e sui rischi dalle stesse derivanti”. Questa norma è integrata dall’art. 14 co. 5 che prevede il diritto della coppia di chiedere informazioni “sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero”; informazioni certamente determinanti per decidere se accettare o rifiutare il trasferimento. Difatti, la presenza di gravi malattie genetiche dell’embrione, portata a conoscenza della donna, potrebbe spingere quest’ultima a proteggere la propria salute rifiutando l’impianto dell’embrione malato; d’altra parte, ricorda il Tribunale, la presenza di difetti genetici aumenta il rischio sia di una “prosecuzione patologica della gravidanza” sia di un “aborto spontaneo”, con possibilità, in entrambi i casi, di lesione dell’integrità fisica e psichica della gestante.Negare la diagnosi preimpianto implica, quindi, come aveva già rilevato la dottrina(30), condannare la donna a prendere una decisione non informata, inconsapevole, in ordine al trasferimento in utero degli embrioni formati, con il rischio di mettere in pericolo la propria salute. Proprio per evitare che ciò accada, la legge 40, conclude il tribunale, non ha stabilito il divieto della diagnosi preimpianto, dimostrando così di attribuire prevalenza alla salute della donna rispetto all’aspettativa di vita dell’embrione.Questa prevalenza si evince con chiarezza dall’art. 14 che, in relazione a diverse situazioni, protegge l’embrione fintantochè non vi sia un pericolo per la salute della donna(31). A riprova di ciò, la sentenza ricorda che l’obbligo dell’ “unico e contemporaneo” impianto degli embrioni, sancito dall’art. 14 co. 2, incontra l’eccezione dell’insorgere di un problema di salute della donna, circostanza che legittima quest’ultima a chiedere la crioconservazione, pratica in generale vietata (art. 14 coo. 1 e 3). Inoltre, il divieto di riduzione embrionaria di gravidanze plurime è derogato dalle ipotesi in cui sussistano i presupposti dell’interruzione volontaria della gravidanza (art. 14 co. 4)(32). E ancora, sebbene il consenso alla p.m.a. non possa essere più revocato dopo la fecondazione dell’ovulo (art. 6 co. 3 l. n. 40/2004), è pur vero che non è stata prevista alcuna sanzione qualora la donna rifiuti, per qualsiasi motivo, il trasferimento dell’embrione.L’art. 14, dunque, diversamente dall’art. 13, non tutela esclusivamente l’embrione, tant’è che l’interesse di quest’ultimo a svilupparsi soccombe qualora confligga con il diritto alla salute della madre; ciò in piena sintonia con la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (artt. 4 e 6 l. n. 194/1978).Se la legge 40 salvaguarda l’embrione e la salute della donna dettando regole diverse in dipendenza degli interessi o dei diritti connotanti il conflitto che viene in rilievo, è pienamente legittima la lettura costituzionale degli artt. 13 e 14 nel senso della praticabilità della diagnosi genetica preimpianto(33) qualora questa sia richiesta ai sensi dell’art. 14 co. 5 e sia funzionale all’effettiva tutela della salute della donna durante la gravidanza.Un argomento a sostegno può trarsi anche dal parallelo con la diagnosi prenatale(34), tecnica invasiva del feto, rischiosa per l’eventualità di un’interruzione della gravidanza, ma legittima in quanto avente la funzione di tutelare la maternità e la salute del feto(35). E’ evidente come ammettere la diagnosi prenatale e negare la diagnosi preimpianto comporterebbe un’incongruenza al livello del sistema normativo. Nella sentenza in commento si afferma, infatti, che la praticabilità della diagnosi prenatale implica altresì la legittimità di quella preimpianto, entrambe volte al perseguimento del medesimo scopo; opinando diversamente si violerebbe il principio di uguaglianza che vieta di trattare diversamente situazioni sostanzialmente analoghe(36).Se quanto detto è corretto, il medico incorre in responsabilità contrattuale(37) qualora, ove richiesto, non abbia fornito informazioni sullo stato di salute degli embrioni oppure abbia errato nel corrisponderle(38).In dottrina, tuttavia, è sorto un interrogativo. Se dalla diagnosi medica dovesse emergere che un solo embrione tra quelli formati è affetto da una grave patologia e perciò fosse rifiutato dalla donna, quale sarebbe la sorte degli altri embrioni sani? Secondo una tesi, per non incorrere nel divieto di selezione a scopo eugenetico (art. 13 co. 3 let. b l. n. 40/2004) e nella violazione dell’obbligo del contemporaneo impianto di tutti gli embrioni formati (art. 14 co. 3), l’abbandono non potrebbe riguardare solo l’embrione malato ma dovrebbe interessare anche gli altri eventualmente formati e perfettamente sani(39). Si può replicare, come già evidenziato, che la selezione, nel caso di specie, non è volta ad appagare l’interesse della coppia ad avere un figlio sano (c.d. eugenetica negativa)(40), ma a salvaguardare il benessere fisico e psichico della donna. Lo stesso tribunale cagliaritano ritiene che “non si tratterebbe di pratica eugenetica, certamente vietata ai sensi dell’art. 13, ma di impossibilità di procedere all’impianto per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”.Inoltre, dalle prescrizioni dell’obbligo del “contemporaneo impianto” e del divieto di creare più di tre embrioni, la cui ratio è di evitare la produzione di embrioni in sovrannumero(41) a tutela della dignità della vita umana sin dal suo inizio, non sembra potersi dedurre il divieto di chiedere il trasferimento degli embrioni sani; divieto il cui fondamento sarebbe difficile da individuare.Si noti, piuttosto, che l’abbandono degli embrioni sani lede l’interesse di questi ultimi a svilupparsi senza che vi sia, quale giustificazione, la necessità di tutelare la salute della madre e ciò appare irragionevole, ancor di più considerato che la coppia potrebbe decidere di formare altri embrioni i quali, se non affetti da patologie, saranno verosimilmente trasferiti nell’utero della madre genetica. In tal modo si realizzerebbe proprio ciò la legge voleva evitare ossia la formazione di un numero di embrioni superiore a quello occorrente per l’impianto, con inutile sacrificio di vite umane sia pur nello stadio iniziale(42). Deve, quindi, ammettersi il diritto chiedere il trasferimento in utero dell’embrione sano nonostante l’abbandono di quello malato(43).A questo punto è agevole compiere un altro passaggio argomentativo, giustamente svolto dal tribunale, a sostegno dell’ammissibilità della diagnosi preimpianto. Se la legge 40 non vieta questa pratica invasiva, come si evince dal confronto tra gli articoli 13 e 14, ne consegue l’illegittimità della prescrizione, contenuta nelle Linee guida ministeriali in materia di p.m.a.(44), secondo cui l’indagine sull’embrione può essere solo “osservazionale”. Questa disposizione (non più in vigore), riducendo l’ambito applicativo dell’art. 14 co. 5, norma che non specifica quale tipo di atto medico sia lecito per acclarare lo stato di salute degli embrioni, contrasta con la fonte primaria. Ciò in aperta violazione delle prerogative proprie degli atti di normazione secondaria – come le Linee guida, atto amministrativo di natura regolamentare – i quali devono limitarsi ad integrare la disciplina della materia contenuta nella fonte gerarchicamente sovraordinata con regole di contenuto tecnico e di natura eminentemente procedurale. L’art. 7 della legge 40 stabilisce, infatti, che il decreto del Ministro della salute debba contenere soltanto “l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”. Con palese “eccesso di delega”(45), invece, è stata inserita una nuova norma non presente nella legge, intervenendo, così, positivamente sull’oggetto della procreazione medicalmente assistita, Proprio con questa motivazione, il Tar del Lazio ha recentemente annullato la disposizione in parola ritenendola illegittima(46).Alla luce delle argomentazioni addotte, il tribunale di Cagliari afferma la liceità della diagnosi preimpianto quando sussistono le seguenti condizioni: a) sia stata richiesta dai soggetti indicati dall’art. 14 co. 5; b) riguardi embrioni destinati all’impianto nel grembo materno; c) sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie dell’embrione e finalizzata a garantire un’adeguata informazione sulla salute degli embrioni da trasferire. Nella fattispecie il tribunale condanna i convenuti (Azienda U.s.l. e il medico) ad effettuare l’accertamento diagnostico “da eseguirsi anche con tecniche invasive secondo metodologie che, in base alla scienza medica, offrano il maggior grado di attendibilità della diagnosi ed il minor margine di rischio per la salute e le potenzialità di sviluppo dell’embrione”.

4 Incongruenze della legge 40/2004 acuite dalla sentenza e dalle nuove Linee guida.

La decisione del tribunale di Cagliari è ben motivata in quanto interpreta gli artt. 13 e 14 l. n. 40/2004 alla luce della diversità dei criteri ispiratori della legge stessa, pervenendo ad una soluzione in linea con altre norme ordinarie e costituzionali.Essa è inoltre apprezzabile perchè il giudice, nonostante l’estrema delicatezza della materia che coinvolge la vita umana nella fase iniziale e colei che deve accoglierla, non si sottrae al suo compito di ius dicere e decide, con coraggio, interpretando e applicando le norme. Analogo modo di procedere ha guidato, di recente, la Cassazione nel porre la distinzione tra rifiuto delle cure ed eutanasia e nell’individuare alcuni criteri che consentono di attribuire rilevanza giuridica alla volontà sulla fine della vita non formalizzata nel testamento biologico(47). Ci si può domandare, tuttavia, se sia legittimo richiedere la diagnosi preimpianto anche quando non vi sia un motivo specifico per ritenere che l’embrione possa essere affetto da una malattia ereditaria. Se si ragiona, come già accennato, argomentando dal fatto che la diagnosi prenatale può essere chiesta anche se non vi sia una ragione seria derivante dalla storia clinica dei genitori, ma solo perchè questi ultimi intendano conoscere lo stato di salute del feto, la medesima possibilità dovrebbe ammettersi in relazione alla diagnosi preimpianto.Vietare quest’ultima e ammettere invece la diagnosi prenatale determina “una situazione eticamente indifendibile”, se si considera la legittimità dell’aborto ed il fatto che, con tale soluzione, si attribuirebbe all’embrione “uno statuto epistemologico più forte di quello del feto. Della sorte di quest’ultimo, infatti, si può disporre, mentre si sancisce l’assoluta inviolabilità del primo, trascurando la considerazione che, se si ritiene che siano forme di vita equivalenti, la differenza di trattamento non è giustificabile; e se si ritiene che siano momenti diversi della realizzazione di un progetto di vita, logica vorrebbe che la protezione crescesse man mano che il progetto di vita si avvicina al suo compimento. La coazione giuridica, volta a mantenere il caso, viene così messa in scacco all’interno stesso della regola del diritto”(48).Se, dunque, non è convincente, alla luce della vigente normativa ordinaria e costituzionale, l’opinione che nega la diagnosi preimpianto, è comunque opportuno un intervento del legislatore volto a disciplinare i presupposti della selezione preimpianto, per scongiurare il rischio di generalizzarla anche a fronte di malattie non gravi, o curabili, dell’embrione.Proprio per questa ragione, la legge francese(49) subordina la selezione preimpianto alla presenza di una forte probabilità, derivante dalla storia clinica della coppia, di trasmettere all’embrione una malattia di particolare gravità, ritenuta incurabile – non quindi una qualunque patologia – al momento della diagnosi. La legge tedesca, da parte sua, individua tassativamente le malattie genetiche che legittimano la selezione del sesso del nascituro(50); ugualmente in Inghilterra, la selezione degli embrioni non è ammessa in ogni caso ma è subordinata, dalla legge del 1990 sulla fecondazione umana e l’embriologia, ad una valutazione del caso concreto e ad una specifica autorizzazione dell’Human Fertlity and Embriology Autority.Non può sfuggire, infine, sotto altro profilo, come il riconoscimento del diritto alla diagnosi preimpianto alla coppia che abbia avuto accesso alla p.m.a. crei un’ingiustificata discriminazione delle coppie portatrici di una malattia genetica ma capaci di procreare naturalmente(51).Com’è noto, infatti, i destinatari della legge 40 sono soltanto le coppie coniugate o conviventi che abbiano problemi di sterilità o di infertilità (artt. 1 e 5 l. n. 40/2004). Esse, se in grado di trasmettere malattie genetiche, possono chiedere, ai sensi dell’art. 14 co. 5 così come interpretato dai tribunali di Cagliari e di Firenze(52), nonchè dal Tar del Lazio(53), la diagnosi preimpianto degli embrioni formati a tutela della salute fisica e psichica della madre genetica. Diversamente, la coppia non sterile ma portatrice sana di patologie trasmissibili geneticamente, non potendo accedere alla fecondazione assistita, indispensabile per verificare le condizioni dell’embrione, deve rassegnarsi, qualora decida di procreare, ad affrontare il pericolo per la salute della donna.Questa diversità di trattamento sembra contrastare con l’art. 3 della Costituzione perchè incentrata su una “condizione personale” relativa alla presenza o meno dello stato di sterilità/infertilità. Inoltre, essa contrasta anche con l’art. 14 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina che apre a favore della selezione genetica preimpianto al fine di “evitare una malattia ereditaria legata al sesso”. Non può sottacersi, pertanto, che la soluzione del tribunale di Cagliari, pur condivisibile, accresce la discriminazione nei confronti della coppia non sterile portatrice di anomalie genetiche.Al fine di eliminare un’ingiustificata disparità di trattamento quanto alla protezione della salute della donna, si auspica una modifica legislativa degli artt. 1 e 5 della legge 40 nel senso di ammettere alla p.m.a. anche la coppia non sterile, portatrice di gravi malattie ereditarie(54).Su questo aspetto è intervenuto, di recente, in sostituzione del D.M. 21 luglio 2004, il decreto del ministero della Salute 11 aprile 2008(55) che, in ottemperanza all’art. 7 co. 3 l. n. 40/2004, ha provveduto all’aggiornamento delle Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita. Sul punto in esame il nuovo decreto ha ampliato i presupposti dell’accesso alla procreazione assistita reputando l’uomo portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBV (epatite B) o HCV (epatite C) un soggetto affetto da infertilità. Si legge infatti nel provvedimento che “l’elevato rischio di infezione per la madre o per il feto costituisce di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione, imponendo l’adozione di precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di infecondità, da farsi rientrare tra i casi di infertilità maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico, di cui all’art. 4, comma 1 della legge n. 40 del 2004”.Questa prescrizione si espone a una duplice critica.Essa in primo luogo, modificando le condizioni di accesso alla procreazione assistita esorbita dall’oggetto delle Linee guida di dettare, in corfonità a quanto previsto dall’art. 7 co. 1, regole “contenenti l’indicazione delle procedure e delle tecniche di p.m.a.”. Queste regole – come ha affermato il TAR del Lazio nella sentenza sopra citata – presentano un “alto contenuto tecnico e di natura eminentemente processuale”. Invece, la scelta di equiparare il portatore di certe malattie al soggetto sterile implica una scelta di politica legislativa vietata alla normativa secondaria. Oltretutto si può osservare come sembri difficile accogliere un’interpretazione estensiva del presupposto dell’infertilità/sterilità, prescritto dall’art. 4 co. 1 l. 40/2004, fino a comprendere anche i casi di sterilità di fatto, in quanto tale norma si riferisce alle malattie dell’apparato riproduttivo e non ad altre circostanze che sconsigliano di procreare naturalmente.Un secondo motivo di critica risiede nell’ingiustificata disparità di trattamento di coloro che, pur non affetti da sterilità/infertilità, sono colpiti da gravi patologie genetiche (ad es. la talassemia) trasmissibili al nascituro. La coppia in cui vi sia tale soggetto, non potendo accedere alla p.m.a. e dunque alla diagnosi preimpianto, dovrà attendere l’esito di specifiche indagini mediche praticabili dal terzo mese di gravidanza per conoscere le condizioni di salute del nascituro ed eventualmente, in presenza delle condizioni di legge (art. 6 let. b), la donna potrà richiedere l’interruzione della gravidanza. Emerge con chiarezza come l’impedimento alla coppia in parola dell’accesso alla p.m.a. non salvaguardi affatto il nascituro il quale soccombe ugualmente ove la donna, accertata la rilevante anomalia o malformazione di esso, decida di abortire per l’esistenza di un grave pericolo per la propria salute psichica.Questo bilanciamento di interessi in cui prevale la posizione della gestante può essere legittimamente anticipato, all’interno del procedimento di p.m.a, nella fase precedente l’impianto degli embrioni allo scopo di prevenire un pregiudizio alla salute della donna(56).Se si ragiona in termini di bilanciamento di interessi, desta perplessità anche l’art. 14 co. 2 l. 40 non solo nella parte in cui prescrive l’unico e contemporaneo impianto, sul quale ci siamo già soffermati, ma anche laddove pone il divieto di creare più di tre embrioni. Nella medesima ottica di composizione degli interessi suscita dei dubbi anche il divieto di crioconservazione (salva un’eccezione), correlato alle disposizioni sul numero massimo di embrioni e sull’unico e contemporaneo impianto. Su queste prescrizioni possono svolgersi alcune riflessioni.La procreazione medicalmente assistita è un trattamento sanitario che, in quanto tale, non sembra poter prescindere dalla valutazione medica circa le condizioni generali di salute della donna che intenda sottoporvisi. Il ricorso ad un secondo trattamento ovarico, infatti, potrebbe mettere in pericolo la salute fisica e psicologia della paziente; questo pericolo, tuttavia, può essere scongiurato ove fosse consentito al medico di formare più di tre embrioni in modo da non sottoporre la paziente ad un’ulteriore stimolazione ovarica, necessaria qualora il primo trasferimento non abbia avuto buon esito. Il divieto di formare più di tre embrioni sembra contrastare, quindi, con il fine perseguito dalla legge 40 di tutelare la salute della donna, come dimostra non solo l’art. 14 coo. 1, 3 e 4 ma altresì l’art. 4 co. 2 let. a) nella parte in cui afferma che la “minore invasività” è uno dei principi di applicazione delle tecniche di p.m.a.Recentemente il Tar del Lazio(57) ha posto in discussione il divieto in esame, reputato in contrasto con la tutela, non soltanto della salute della donna, ma anche dell’aspettativa alla gravidanza. Tale aspettativa si desumerebbe dalla possibilità legislativamente prevista sia di formare ed impiantare tre embrioni per volta, sia di ripetere la tecnica procreativa. Se, infatti, il legislatore avesse voluto tutelare maggiormente l’embrione – si afferma nella sentenza – avrebbe dovuto stabilire l’obbligo di produrre e di inserire un solo embrione alla volta, scongiurando così il rischio di perderne qualcuno. In sostanza il Tar intende evidenziare come sia la stessa legge 40 a permettere il sacrificio degli embrioni (2 o di più qualora la p.m.a. sia ripetuta), per favorire la gravidanza. Se così è, continua il tribunale, il legislatore, per essere coerente con l’obiettivo di garantire una concreta aspettativa di gravidanza (che pure ha tutelato in una certa misura), “non avrebbe dovuto escludere la possibilità di consentire l’accertamento delle molte variabili che accompagnano la vicenda della procreazione assistita”. Si pensi, sotto questo profilo, esemplifica il tribunale, alla salute, all’età della donna interessata e alla possibilità che la stessa produca embrioni non forti, “intendendo con ciò non quelli capaci di produrre una Ôrazza migliore’ (É), ma semplicemente quelli che possono rivelarsi più idonei a realizzare il risultato della gravidanza e della procreazione”.Il Tar, quindi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 32 della Cost., dell’art. 14 co. 2 nella parte in cui impedisce di creare più di tre embrioni e dell’art. 14 co. 3 nella parte in cui limita la criocoservazione al caso in cui sia sopravvenuta una causa di forza maggiore legata alla salute della donna.

5 La rilevanza giuridica dell’embrione: tecniche di tutela.

La decisione del tribunale di Cagliari favorevole alla diagnosi preimpianto costituisce l’occasione per indagare sul significato del riconoscimento, contenuto nell’art. 1 l. n. 40/2004, al concepito della qualità di “soggetto”. A questa indagine occorre premettere un dato rilevante per definire la tutela da attribuire al concepito.Secondo la genetica moderna, la vita umana inizia con la fecondazione del gamete femminile (ovocita) ad opera del gamete maschile (spermatozoo). L’unione dei gameti origina lo zigote (o embrione unicellulare) il quale possiede un genoma individuale capace di determinare, attraverso lo svolgersi delle fasi biologiche successive, la formazione dell’individuo.Nel genoma è compreso il progetto e il programma di sviluppo dell’essere umano sicchè si può dire, utilizzando un’immagine edilizia, che lo zigote, in quanto dotato di un proprio genoma esclusivo, è “progettista, direttore e costruttore del nuovo essere concepito”, quindi è un’entità dotata di autonomia “non intaccata dalla dipendenza dalla madre per il nutrimento”(58). Ciò ha consentito alla biologia e alla genetica di affermare l’esistenza di una identità genetica fin dal momento della fecondazione.Questa scoperta ha delegittimato le tesi posticipative(59) dell’inizio dell’umanità nel concepito, svelando che esse esprimono una concezione prettamente utilitaristica dell’essere umano: la degradazione del c.d. pre-embrione a res consente, infatti, di giustificare qualunque utilizzo del concepito, soprattutto, com’è avvenuto nel Regno Unito con la copertura del Warnock Report del 1985, a scopo di ricerca.Se, invece, la vita umana è meritevole di tutela fin dal momento della fecondazione, come si è stabilito in alcune Risoluzioni del Parlamento europeo, in fonti sovranazionali ed internazionali(60), diviene centrale il problema del mezzo tecnico attraverso il quale attribuire tale tutela.La dottrina italiana più attenta, prima dell’entrata in vigore della legge 40/2004, era concorde nel considerare destabilizzante per l’ordinamento privatistico e inutile una norma che attribuisse capacità giuridica anche al concepito. Lo stesso legislatore del codice civile ha evitato quest’attribuzione, limitandosi a sancire a favore del nascituro alcuni diritti in previsione della nascita, diritti dei quali, secondo l’interpretazione prevalente(61), non è titolare il concepito. Si ha, invece, secondo l’interpretazione preferibile dell’art. 1 co. 2 c.c. e delle altre norme sul nascituro, “un patrimonio destinato, con un amministratore, ma senza titolare”(62).La ragione di questa scelta si comprende se si richiamano la genesi e i caratteri della capacità giuridica. Questa è sorta per superare la derivazione della soggettività dagli status, in modo che il soggetto fisico, in ossequio al principio di uguaglianza, fosse “considerato, in astratto, punto di collegamento di tutte le norme del sistema”, cosicchè “nessun campo dei diritti e degli obblighi gli fosse precluso in anticipo per la mancanza di qualità costanti o status”(63). La qualità umana è sufficiente “a rendere il soggetto portatore potenziale di tutti gli interessi giuridici tutelati dal sistema, nonchè titolare di un insieme di diritti e di garanzie che si collegano immediatamente alla sua personalità”(64).La capacità giuridica, da identificarsi con la soggettività, avendo natura essenzialmente potenziale, “consiste in una qualità astratta ed a priori” del soggetto che, in quanto tale, è “insuscettibile di graduazione”(65).Ora, si può osservare che se il legislatore avesse previsto che la capacità giuridica si acquista fin dal momento del concepimento, nell’accezione dell’unione dei gameti maschile e femminile, avrebbe cancellato il tratto caratterizzante della capacità giuridica consistente nel rendere la persona fisica destinataria, in potenza, di tutte le norme dell’ordinamento. Infatti, qualificare l’embrione quale soggetto (quindi dotato di capacità giuridica) non esime comunque l’interprete dal verificare se, in concreto, il diritto che si vorrebbe riconoscere al concepito sia compatibile con altre situazioni giuridiche soggettive protette.La diagnosi prenatale o possibili interventi terapeutici del feto, ad esempio, sono attuabili solo in presenza del consenso della madre gestante, nè si può pensare ad un consenso sostitutivo prestato da un rappresentante del nascituro nominato dal giudice. Il medico certamente viola la libertà della donna di disporre del proprio corpo, riconducibile all’art. 13 Cost., se pratica un intervento contro la volontà della stessa. Neppure sembra sostenibile l’esistenza di una responsabilità della madre che rifiuti un intervento curativo del feto perchè, come giustamente rilevato in dottrina, l’autodeterminazione tutelata dalla norma costituzionale “funge da aggregante e collega diritto sul proprio corpo, diritto alla salute, identità personale, privacy in senso forte”(66).Questo esempio dimostra che anche attribuendo la capacità giuridica al concepito non è possibile garantirgli assolutamente il diritto alla vita o alla salute(67) in quanto esso “è al di là di una soglia – quella del corpo materno – che il diritto non varca con misure coercitive”(68).Anche in relazione alla situazione giuridica del concepito fuori dall’utero, il riconoscimento della capacità giuridica non è determinante per risolvere a suo vantaggio situazioni di conflitto con altri diritti o interessi giuridicamente tutelati.E’ noto, a tal proposito, che la legge 40 ha vietato la crioconservazione degli embrioni ad eccezione del caso in cui il loro trasferimento nell’utero non sia possibile “per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”. La donna, tuttavia, dopo la formazione degli embrioni potrebbe rifiutare l’impianto anche per ragioni diverse dalla salute, soltanto perchè non intende più avere un figlio. In questo caso l’interesse del concepito a nascere non può realizzarsi superando il rifiuto della madre genetica, neppure ove si ritenga che il concepito sia dotato di capacità giuridica, pena, altrimenti, la violazione dei principi costituzionali di libertà e di rispetto della persona umana cui è riconducibile l’autodeterminazione della donna in ordine alle scelte riguardanti il proprio corpo.Emerge chiaramente, quindi, come non abbiamo “un rapporto tra soggetti, che dovrebbe, altrimenti, necessariamente, far emergere un diritto alla vita dell’embrione”(69). La legge 40 non punisce, difatti, correttamente, la donna che rifiuti il trasferimento dell’embrione, nonostante il disposto normativo secondo cui la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti che ha avuto accesso alla p.m.a. “fino al momento della fecondazione dell’ovulo” (art. 6 co. 3).Ma allora se il riconoscimento della capacità giuridica fin dal concepimento non aiuta a risolvere possibili conflitti nè comporta il riferirsi di tutte le norme giuridiche al concepito, il quale pertanto non beneficerebbe di una piena tutela nè della parità di trattamento con chi è nato, come interpretare il riferimento della soggettività contenuto nell’art. 1 l. 40?Se si muove dalla considerazione della Corte Costituzionale secondo cui non vi è equivalenza di posizione giuridica tra la madre e l’embrione, è evidente che una formula legislativa come quella contenuta nell’art. 1 l. 40 non può pareggiare una situazione oggettiva di diversità. E, infatti, la stessa Corte Costituzionale(70), in occasione del giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo della legge 40, ha sottolineato, per inciso, “il contenuto meramente enunciativo” dall’art. 1 co. 1 l. 40 dal momento che la “tutela di tutti i soggetti coinvolti e, quindi, anche del concepito” si sarebbe dovuta “ricavare (É) dal complesso delle altre disposizioni della legge”.Il legislatore non è onnipotente; deve quindi escludersi che il concepito sia, nonostante l’art. 1, titolare della capacità giuridica(71), concetto che continua a considerare solo la persona nata quale centro di imputazione di tutti gli effetti normativi, in funzione di certezza della titolarità dei diritti.Queste conclusioni non hanno impedito, tuttavia, al legislatore di predisporre disposizioni a tutela del concepito in ossequio a principi fondamentali dettati dalla Costituzione, come si è verificato più di recente con l’art. 13 legge 40; e neppure hanno ostacolato il riconoscimento, da parte della giurisprudenza, del risarcimento del danno non patrimoniale al nato per l’uccisione del genitore avvenuta durante la gravidanza(72), e del danno al nato malformato per errore del medico compiuto sempre durante la gravidanza(73).Proprio sulla scorta degli indici di rilevanza giuridica dell’embrione, non solo di diritto interno, una parte della dottrina ha intrapreso un’opera di riduzione del significato tecnico delle nozioni di “persona” e di “soggetto di diritto”, categorie espressive del formalismo statalista proprio dell’art. 1 c.c., per valorizzare, invece, un’idea allargata di soggettività(74). Il sostrato giuridico è stato individuato nella terminologia della Costituzione la quale adopera termini quali “uomo” e “individuo”.Al concepito, si afferma, deve essere riconosciuta la qualità di “uomo” e di “soggetto” relativamente ai diritti fondamentali, pur non essendo titolare della capacità giuridica. Si infrange così il dogma dell’equazione soggettività uguale capacità giuridica(75) e si dà vita ad una divaricazione tra il sistema codicistico e i principi costituzionali, creando una soggettività di rilevanza costituzionale dell’uomo in quanto tale(76).Certamente, com’è stato autorevolmente rilevato, “la capacità, nel suo regolamento concreto, non esprime tutta l’appartenenza all’ordine giuridico positivo (non esprime neanche l’essenziale momento della protezione)”(77), tuttavia l’attribuzione della soggettività al concepito (art.1 l. 40) non implica una tutela assoluta nè funge da strumento tecnico indispensabile attraverso il quale far operare, in certi casi, la protezione giuridica. Difatti, il principio della dignità che impone il rispetto della vita umana fin dal suo inizio, il diritto alla vita e alla salute, da garantire anche al concepito, si ricavano dalla Costituzione e da altre fonti di cognizione senza necessità di essere veicolate dalla soggettività.Questa considerazione ha spinto un’altra parte della dottrina a non separare la nozione di “uomo” da quella di “persona”, a differenza della tesi sopra esposta, pur tuttavia affermando la legittimità della tutela della vita prenatale in quanto questa tutela è già assurta a valore di interesse generale “indipendentemente dal fatto che il sistema si impegni verso una qualificazione in senso soggettivo”(78). La Costituzione prevede altri casi in cui sancisce l’esigenza della protezione di certi beni quali valori in sè, come la maternità, l’infanzia, la gioventù e la salute, come interessi non solo dell’individuo ma anche della collettività. Siamo in presenza di valori protetti ma privi di una soggettività propria.Il concepito, quindi, secondo l’opinione in esame, pur non essendo l’uomo di cui parla la Costituzione – nozione non contrapposta a quella di soggetto – è protetto in quanto tale nella sua fisicità, carattere questo che con la nascita perde centralità, in quanto la capacità giuridica e la titolarità dei diritti costituiscono lo strumento attraverso cui la persona, astrattamente intesa, riceve protezione. Si è parlato, a tal proposito, per l’embrione, di tutela reale(79).Si può allora ritenere che le norme della legge 40, proteggendo l’embrione, tutelino un valore che il legislatore ha ritenuto essenziale e degno di considerazione da parte del diritto; tali norme, tuttavia, si sarebbero potute ugualmente prevedere anche senza attribuire la qualità di soggetto all’embrione. Del resto, la stessa legge sull’interruzione volontaria della gravidanza ha approntato una difesa del concepito senza qualificarlo soggetto di diritto, in coerenza con l’impegno sancito dall’art. 1 l. n. 194/1978, dello Stato di garantire “la vita umana dal suo inizio”.In conclusione, sia la dottrina che ha individuato una soggettività di rilevanza costituzionale sia la dottrina che ha ritenuto sufficiente la tutela del concepito in termini oggettivi, quale valore che esige protezione, hanno avuto il merito di porre l’accento sulla possibilità di superare i limiti della disciplina della capacità giuridica. Entrambe queste posizioni escludono però ogni automatismo nella protezione del concepito nonchè, soprattutto, che questi sia titolare di una protezione giuridica eguale a quella di chi è già persona come la madre.Il livello di protezione del concepito deve, pertanto, essere verificato in relazione alla fattispecie concreta, modulando, quando la soluzione non è espressamente prevista dalla legge, la protezione secondo i criteri ricavabili, in particolare, dalle leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza e sulla p.m.a.A questo proposito, applicando il principio secondo cui l’embrione deve essere protetto quando la sua posizione non entri in conflitto con la salute della madre genetica, si può tentare di risolvere due questioni controverse.La prima riguarda la praticabilità dell’adozione, da parte di una coppia anche non affetta da sterilità/infertilità, di embrioni sovrannumerari o abbandonati da chi ha avuto accesso alla p.m.a.Si potrebbe ritenere che, sebbene la vita umana sia protetta sin dal suo inizio, l’adozione degli embrioni debba essere esclusa, pena la violazione del divieto (di dubbia costituzionalità)(80) della procreazione eterologa. La coppia adottante avrebbe un figlio che geneticamente non le appartiene, in violazione del principio costituzionale della verità biologica del rapporto di filiazione che imporrebbe la tendenziale coincidenza tra paternità-maternità legale e paternità-maternità naturale(81).Si può replicare, prescindendo dall’esistenza o meno di tale principio, che nel caso di adozione dell’embrione la vita umana è già iniziata, mentre il divieto di eterologa persegue lo scopo di evitare in radice la formazione di embrioni con gameti esterni alla coppia. Diviene allora sostenibile che l’esistenza di un embrione formato nel rispetto del divieto di fecondazione eterologa renda eseguibile la richiesta di una coppia che desideri avere un figlio; in tal modo, non si deroga al divieto di eterologa (rispettato in occasione della formazione dell’embrione) ma si protegge la vita umana garantendole la possibilità di svilupparsi(82).La seconda questione controversa è originata dall’art. 5 legge 40 nella parte in cui stabilisce che possono accedere alle tecniche di p.m.a. coppie in cui entrambi i soggetti siano viventi(83). E’ discusso l’ambito di questo divieto.Per chiarire, ipotizziamo che l’embrione formato con la fecondazione in vitro debba essere congelato per motivi di salute della madre genetica; successivamente il padre genetico muore ma la donna, dopo un po’ di tempo, chiede ugualmente l’impianto dell’embrione (c.d. fecondazione post mortem). Questa richiesta deve essere eseguita in virtù sia di un’interpretazione letterale che sistematica dell’art. 5. Sotto il primo profilo, la norma stabilisce che requisito per l’accesso alla p.m.a. è l’esistenza di due persone viventi legate da un rapporto di coniugio o conviventi. E’ evidente che con la formazione dell’embrione, l’accesso si è già verificato pertanto, quanto alla ipotizzata violazione dell’atrt. 5, non rileva la sopravvenuta morte del padre genetico quando l’embrione è già stato formato.Si potrebbe obiettare che, ammettendo l’impianto dell’embrione, si violerebbe il diritto del nato, tutelato dalla Costituzione, ad avere due genitori entrambi viventi(84). Ma quest’affermazione non è decisiva perchè compara in maniera incongrua valori diversi: da una parte il diritto a svilupparsi e a nascere di un embrione già esistente e dall’altra il diritto ad avere due genitori sancito in relazione a un soggetto astratto e a un modello solo preferibile e non esclusivo di famiglia. L’embrione però non è astratto, dunque è iniquo utilizzare il diritto ad avere due genitori per paralizzare la richiesta, da parte della donna rimasta sola, di impianto dell’embrione già formato.Questa conclusione è corroborata dal secondo profilo, di rilievo sistematico, cui si faceva cenno: se l’embrione è meritevole di tutela fin dal momento in cui è formato e se questa tutela è più intensa quando non vi sia pericolo per la salute della madre, è chiaro che l’impianto, nel caso in esame, realizza la protezione della vita umana, in una situazione in cui non è invocata dalla donna la difesa della propria salute.La legge 40, peraltro, ha superato l’opinione, espressa da una parte della dottrina e della giurisprudenza prima dell’entrata in vigore della legge stessa, secondo cui non sarebbe stato possibile l’impianto ove il coniuge (o il convivente) defunto non avesse espresso il consenso alla fecondazione post-mortem(85). L’art. 6 co. 3 l. n. 40/2004 stabilisce, infatti, che dopo la fecondazione dell’ovulo non è più possibile revocare la volontà di procreare. In forza di questa disposizione, nonchè dell’art. 6 che vieta la soppressione dell’embrione, il padre genetico vivente non può impedire alla madre genetica di ottenere il trasferimento in utero dell’embrione, nonostante la sopraggiunta crisi coniugale(86). A fortiori il decesso non costituisce ostacolo al trasferimento dell’embrione.Si deve quindi ritenere che la limitazione del ricorso alle tecniche di p.m.a. ai viventi debba essere intesa nel senso che non è consentita l’utilizzazione del gamete crioconservato(87) di chi non sia più in vita neppure se questi abbia espresso, in vita, per iscritto il suo consenso(88).

 

NOTE1 Prima dell’emanazione della legge n. 40/2004, subito criticata dalla dottrina per i dubbi di costituzionalità originati da alcune sue disposizioni (cfr. Palazzo, La filiazione, in Tratt. Schlesinger, Milano, 2007, 12-13, e Rodota’, Se la violenza sulle donne viene dalla legge, in La Repubblica, 6.12.2007), la fecondazione in vitro, unita alla possibilità di effettuare indagini genetiche sull’embrione allo scopo di individuare eventuali patologie di quest’ultimo, aveva consentito alle coppie portatrici sane di gravi malattie geneticamente trasmissibili (quali la talassemia, la fibrosi cistica e le emofilie) di scegliere gli embrioni privi di patologie e di avere così un figlio in perfetta salute. Oggi sono maggiori le possibilità di individuare alterazioni del genoma fin dalle fasi iniziali della vita umana, pertanto la donna che ha avuto accesso alla p.m.a. avrebbe a disposizione uno strumento per evitare gravidanze indesiderate.2 Scalisi, Lo statuto giuridico dell’embrione umano alla luce della legge n. 40 del 2004, in tema di procreazione medicalmente assistita, in Fam. e dir., 2005, 2, 207 e Gazzoni, Osservazioni non solo giuridiche sulla tutela del concepito e sulla fecondazione artificiale, in Il dir. di fam. e delle pers., 2005, 1, 202.3 I coniugi avevano già agito in via cautelare, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., affinchè il giudice dichiarasse esistente il loro diritto di ottenere la diagnosi preimpianto dell’embrione già formato. I ricorrenti, inoltre, avevano chiesto che fosse sollevata, in ipotesi di mancato accoglimento della domanda principale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., nella parte in cui la norma ordinaria non ammetteva la diagnosi preimpianto quando questa fosse giustificata dalla protezione della salute della madre genetica. Il trib. Cagliari, ord. 16 luglio 2005, cit., non ritenendo possibile un’interpretazione adeguatrice dell’art. 13, sollevava la questione di legittimità costituzionale sospendendo il procedimento. La Corte Costituzionale, ord. 9 novembre 2006, n. 369, in Fam. e dir., 2007, 6, 545., con nota di Figone, La Corte Costituzionale interviene in tema di diagnosi preimpianto sull’embrione, in Il dir. di fam. e delle pers., 2007, 1, 21, con nota di d’Avack, L’evasiva ordinanza n. 369 della Corte Costituzionale del 9 novembre 2006 in merito alla legge sulla procreazione medicalmente assistita e in Giur. it., 2006, 1167, con nota di Banchetti, Procreazione medicalmente assistita, diagnosi preimpianto e (fantasmi dell’) eugenetica, non è entrata nel merito della questione, censurando il ricorso del giudice a quo con una declaratoria processuale di manifesta inammissibilità (per una critica a tale ordinanza sotto il profilo del diritto costituzionale cfr. Morelli, Quando la Corte decide di non decidere. Mancato ricorso all’illegittimità consequenziale e selezione discrezionale dei casi (nota a margine dell’ord. n. 369 del 2006), in www.forumcostituzionale.it). In seguito all’intervento della Consulta, i coniugi avevano preferito abbandonare il procedimento cautelare in corso per intraprendere un nuovo procedimento in via ordinaria.4 Trib. Catania, ord. 3 maggio 2004, in Familia, 2004, 947, con nota di Palmerini, La legge sulla procreazione assistita al primo vaglio giurisprudenziale, in Fam. e dir., 2004, 372, con note di Ferrando, Procreazione medicalmente assistita e malattie genetiche: i coniugi possono rifiutare l’impianto di embrioni ammalati? e di Dogliotti, Una prima pronuncia sulla procreazione assistita: tutte infondate le questioni di legittimità costituzionale? e in Il dir. di fam. e delle pers., 2005, 75, con note di Morozzo Della Rocca, Procreazione medicalmente assistita e beta-talassemia e di L. d’Avack, L’ordinanza di Catania: una decisione motivata attraverso una lettura testuale della legge n. 40 del 2004 e Trib. Cagliari, ord. 16 luglio 2005, in Foro it., 2005, I, 2876.5 Trib. Cagliari, sent. 22.9.2007, in Guida al dir., 2007, 46, 59, con nota di De Nicola e Porracciolo. Si segnala anche Trib. Firenze, ord. 19.12.2007, in Guida al dir., 2008, 3, 53 ss., con nota di Salerno, che, richiamata la sentenza del Trib. di Cagliari della quale accoglie integralmente la motivazione, ordina al Centro di Fecondazione Assistita, convenuto con ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., di procedere alla diagnosi preimpianto e di effettuare successivamente il trasferimento nell’utero soltanto degli embrioni sani o portatori sani e, infine, di procedere alla crioconservazione degli altri embrioni.

6 Trib. Catania, ord. 3 maggio 2004, cit.

7 Pubblicate in Fam. e dir., 2004, 508-509. La norma è inserita nella parte dell’allegato al decreto 21 luglio 2004 riguardante le “misure di tutela dell’embrione e sperimentazione sugli embrioni umani”.

8 L’indagine di tipo “osservazionale” consiste nell’esame al microscopio dell’embrione per accertare la sua regolarità morfologica ed eventuali anomalie nel suo sviluppo.9 Trib. Catania, ord. 3 maggio 2004, cit. Il divieto di pratiche eugenetiche, e in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone, è contenuto anche nell’art. II-63 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione euoropea. Tale divieto è posto, insieme ad altri previsti sempre dalla medesima norma, a tutela del diritto all’integrità della persona, diritto che si realizza attribuendo protezione, e dunque rilevanza giuridica, all’embrione il quale non può essere manipolato per selezionare determinati caratteri, ma solo per finalità diagnostiche o terapeutiche. Rafforza e completa questo ambito di tutela il divieto di discriminazione genetica sancito dall’art. II-81 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, divieto già previsto dall’art. 11 della Convenzione di Oviedo e dall’art. 6 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo, e che ha tratto il proprio fondamento dall’art. 13 del Trattato di Roma.10 Il Trib. Cagliari, ord. 16 luglio 2005, cit., ha ritenuto, sollevando la questione di legittimità costituzionale, che il divieto della diagnosi preimpianto fosse ricavabile non soltanto da altri articoli della legge 40 ma anche dall’interpretazione “dell’intero testo legislativo alla luce dei suoi criteri ispiratori”. Vedremo che questa asserzione è stata sconfessata dalla sentenza Trib. Cagliari 22 settembre 2007, in commento, la quale ha posto bene in luce come la legge 40 sia governata da diversi criteri, in ossequio a quanto affermato dalla Corte Costituzionale in occasione delle sentenze di ammissibilità dei cinque quesiti referendari proposti nei confronti della legge 40 (cfr. Corte Cost., 28 gennaio 2005, n. 48, in Giur. cost., 2005, 385; Corte Cost., 28 gennaio 2005, n. 45, in Giur. cost., 2005, 347 e Corte Cost., 28 gennaio 2005, n. 46, in Giur. cost., 2005, 365).11 Cass., 20.7.2004, n. 14488, in Fam. e dir., 2004, 6, 559, con nota di Facci, Wrogful life: a chi spetta il risarcimento del danno? e in Corr. giur., 2004, 11, 1431, con nota di Liserre, Mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione.

12 Il parallelo è svolto dal Trib. Cagliari, ord. 3.5.2004, cit., il quale ritiene non fondata la prospettazione dei ricorrenti inerente l’incostituzionalità del divieto della diagnosi preimpianto, divieto contrastante con il diritto alla salute e all’autodeterminazione della madre. Il trib. replica che non è riconosciuto il diritto dei genitori ad avere un figlio così come lo desiderano ed inoltre che la posizione giuridica dei genitori è stata contemperata dalla legge 40 con la tutela della vita del concepito. Quest’ultimo argomento non è condivisibile perchè la salute della madre genetica prevale rispetto alla protezione del concepito.

13 E’ noto che la scuola di pensiero cattolica, partendo dal dato secondo il quale fin dal concepimento esiste il patrimonio genetico umano, considera la diagnostica pre-impiantatoria, volta a scartare l’embrione portatore di gravi malattie genetiche, un “grave oltraggio al rispetto dovuto a ogni vita e alla grandezza di ogni essere umano, che non dipende dal suo aspetto esterioreÉ”. Questo ragionamento è incentrato su una determinata etica, ma anche da questo punto di vista sembra possibile giungere ad un’altra conclusione e, segnatamente, a ritenere non etico imporre alla donna il trasferimento di un embrione malato se ella tema per la propria salute. Il discorso, sempre sotto l’angolo dell’etica e non del diritto, è più delicato in ordine alla liceità della sperimentazione sugli embrioni appositamente prodotti in vitro o sovrannumerari. Ci si chiede se sia corretto utilizzare un essere appartenente alla specie umana per un fine da cui altri trarranno vantaggio e, da qui, la seconda domanda se l’embrione sia una persona o un ammasso di cellule. Sul punto cfr. il paragrafo 5.14 Cfr. gli autori citati nella nota 2.15 Questo principio è stato opportunamente applicato dalla giurisprudenza, prima della legge 40, vietando l’azione di disconoscimento della paternità del nato mediante procreazione artificiale eterologa, cfr.: Corte Cost., 26.9.1998, n. 347, in Foro it., 1998, I, 3042 e Cass. 16.3.1999, n. 2315, in Foro it., 1999, I, 1834.16 Trib. Catania, 3.5.2004, cit.17 Trib. Catania, 3.5.2004, cit.18 La stessa l. n. 194/1978 accoglie un concetto di salute non solo biologico (assenza di malattia) ma anche esistenziale: l’art. 4, nel riferirsi alle “condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, indica fatti non correlati alla salute fisica della donna.

19 Zatti, La tutela della vita prenatale: i limiti del diritto, in Nuova giur. civ. comm., 2001, 156.

20 Zatti, op. loc. cit.

21 Zatti, Il diritto a scegliere la propria salute: in margine al caso S. Raffaele, in Nuova giur. civ. comm., 2000, 1.

22 Sono espressamente vietate: 1) la ricerca clinica e sperimentale (art. 13 co. 2 e co. 3 let. a); 2) la selezione a scopo eugenetico degli embrioni (art. 13 co. 3 let b); 3) l’alterazione del patrimonio genetico dell’embrione ovvero la predeterminazione di certe sue caratteristiche, “ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche di cui al comma 2” dell’art. 13 (art. 13 co. 3 let b). La manipolazione genetica, cioè l’alterazione del patrimonio genetico dell’embrione, se effettuata non per finalità terapepeutiche ma per selezionare qualità prestabilite, è contraria alla dignità, integrità e identità dell’essere umano, fondamentali valori costituzionali ricavati dall’art. 2 e 32. Si ritiene quindi che già nella nostra Costituzione è presente il diritto a non ereditare un patrimonio genetico manipolato; 4) la clonazione sia a fini procreativi (c.d. clonazione riproduttiva, vietata dall’art. II-63 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione approvata il 18.12.2000 a Nizza, dall’art. 11 Dichiarzione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo dell’Unesco e dall’art. 1 del Protocollo aggiunutivo sul Divieto di clonazione di esseri umani alla Convenzione di Oviedo) che di ricerca [(c.d. clonazione terapeutica consistente nella creazione di embrioni per la produzione di staminali), art. 13 co. 3 let. c]; 5) “la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diverse e la produzione di ibridi o di chimere” (art. 13 co. 3 let d).

23 Cfr., invece, le considerazioni di Mantovani, Fecondazione assistita e tecniche riproduttive: quali valori in campo (e quali prospettive) dietro la scelta di regolare “per legge” il processo procreativo?, in Legislaz. penale, 2005, 3, 332-334, volte a negare l’ammissibilità della diagnosi preimpianto.

24 Non è, infatti, inconsistente l’interpretazione che riconduce all’art. 13 il divieto della diagnosi preimpianto atteso che questa, invadendo l’embrione deve, per non essere illecita, tutelare la “salute e lo sviluppo dell’embrione”. Non a caso la sentenza in commento effettua un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 13, a dimostrazione della scarsa fondatezza dell’argomento basato sulla violazione del principio di tassatività.

25 G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Riv. dir. civ., 2005, 99.

26 Sul tema della ricerca sulle cellule staminali (prelevate dall’embrione allo stadio di blastocisti) quale settore delle biotecnologie che offre la possibilità di sviluppare nuovi metodi per riparare o sostituire le cellule o i tessuti lesionati o malati e per curare malattie croniche gravi (quali, ad esempio, il diabete, il morbo di Alzheimer, il morbo di Parkinson, l’infarto, la schlerosi multipla, le lesioni del midollo spinale), cfr. Palazzo, cit., 1-8 e 27-43.27 La Corte Cost., 18.1.1975, n. 27, in Foro it., 1975, I, 515, com’è noto, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 546 c.p., ha affermato che la tutela del concepito ha fondamento costituzionale. Si argomenta dagli artt. 31 co. 2, che “impone espressamente la protezione della maternità” e 2 Cost. che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”. Cfr. anche Corte Cost., 10.1.1997, n. 35, in Foro it., 1997, I, c. 672, secondo la quale non possono essere abrogate quelle disposizioni della legge 194/1978 “a contenuto normativo costituzionalmente vincolato” perchè altrimenti si vanificherebbe il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili. Tra queste disposizioni vi sono le norme che proteggono il concepito qualora non sussistano pericoli per la salute o per la vita della gestante: artt. 1, 4, 5, 6, 12 e 13 l. 194/1978. Queste norme tutelano, più ampiamente, la vita, la salute, la maternità, l’infanzia e la gioventù.

28 Le parole tra virgolette, utilizzate dal tribunale di Cagliari, appartengono alla Corte Costituzionale, 18 febbraio 1975, n. 27, cit.

29 Su questo aspetto, che risulta essenziale per giustificare l’esistenza del diritto alla diagnosi preimpianto, si sofferma anche Trib. Firenze, ord. 19.12.2007, cit., 55.

30 d’Avack, cit., 30 e Santosuosso, La procreazione medicalmente assistita, Milano, 2004, 96-101.

31 La dottrina aveva già rilevato la diversità del bilanciamento di interessi contrapposti emergente dagli artt. 13 e 14 della legge 40: cfr. Chieffi, La diagnosi genetica nelle pratiche di fecondazione assistita: alla ricerca del giusto punto di equilibrio tra le ragioni all’impianto dell’embrione e quelle della donna ad avviare una maternità cosciente e responsabile, in Giur. cost., 2006, 6, 4719-4722.

32 Secondo il trib. Cagliari, ord. 29 giugno 2004, in Il dir. di fam. e delle pers., 2005, 3, 938 ss., il medico deve accogliere la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza trigemina, derivante da fecondazione assistita, limitatamente ad uno dei tre feti tutti perfettamente sani, quando la prosecuzione della gravidanza, per la conformazione fisica della gestante, metta in serio pericolo la salute fisica o psichica di quest’ultima, in applicazione dell’art. 4 l. n. 194/1978.

33 Con la sentenza in commento, il giudice ha colmato una lacuna scegliendo l’interpretazione in armonia con la Costituzione e con i principi in tema di tutela del concepito (cfr. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, 93).

34 Essa permette di diagnosticare (attraverso la villocentesi o l’amniocentesi) se vi siano mutazioni genetiche che danno luogo a malattie ereditarie. Tale attività è offerta dal Servizio sanitario nazionale.

35 Vi sono delle patologie che possono essere curate già durante la gravidanza, mediante la somministrazione di farmaci alla madre, ovvero attraverso la chirurgia endouterina o la terapia trasfusionale.

36 L’argomento, peraltro lapalissiano, è ripreso anche dal Trib. Firenze, ord. 19.12.2007, cit., 56, secondo il quale ritenere che la donna non abbia diritto di ottenere la diagnosi preimpianto al fine di verificare se l’embrione sia affetto da una malattia genetica quando comunque la stessa, in forza della legge n. 194/1978, può chiedere l’interruzione della gravidanza se il feto è affetto dalla medesima malattia che la diagnosi preimpianto avrebbe svelato è “irrazionale [e] fuori dal senso morale”.

37 Cass., 22.1.1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, 3332; Cass., 28.5.2004, n. 10297, in Foro it., 2005, I, 2479 e Cass., 19.4.2006, n. 9085, in Leggi d’Italia on line.

38 Cass., 30.7.2004, n. 14638, in Giur. it., 2005, 1395; Cass., 14.3.2006, n. 5444, in Giust. civ., 2006, I, 802 e Cass., 16.10.2007, n. 21748, cit.

39 Così Gazzoni, cit., p. 202, secondo il quale “quando uno dei due o tre sia malato”, tutti gli embrioni saranno destinati all’abbandono, “perchè essi sono inscindibilmente legati l’uno agli altri, sicchè la sorte dell’embrione o degli embrioni sani seguirà inevitabilmente quella dell’embrione malato”. Sembra spingersi addirittura oltre il tribunale di Cagliari, ord. 29 giugno 2004, cit., secondo il quale il senso dell’art. 14 co. 4 legge 40/2004 sarebbe che gli “embrioni non possono essere soppressi prima del loro impianto e devono essere necessariamente impiantati anche quando siano portatori di malformazioni o anomalie, ed anche quando ciò comporti nella donna che si è sottoposta alle pratiche di fecondazione assistita il rischio di seri pericoli per la salute”.

40 Quella positiva consiste nell’attività di selezione di specifiche caratteristiche somatiche.

41 Modugno, La fecondazione assistita alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionale, in Rass. parlamentare, 2005, 404 ss.

42 Del resto la legge n. 194/1978 ammette la riduzione parziale della gravidanza nel caso in cui questa sia plurigemellare. Sostenere che in tal caso la gestante sia tenuta, pur non volendo, a sacrificare tutti i feti, si scontra con il principio di fondo della legge 194 che configura l’interruzione della gravidanza come extrema ratio (trib. Cagliari, ord. 29 giugno 2004, cit). Si può ragionare analogamente in relazione alla fase preimpianto anche se la legge 40/2004 fa riferimento all’ “unico e contemporaneo impianto”.

43 Ammette espressamente il diritto di chiedere il trasferimento degli embrioni sani abbandonando quelli malati i quali dovranno essere crioconservati, il Trib. Firenze, ord. 19.12.2007, cit. Si può osservare che qualora la legge 40 non avesse vietato la procreazione eterologa (art. 4 u.c.), si sarebbe potuta evitare la diagnosi preimpianto ove la coppia, all’interno della quale un soggetto sia portatore di una malattia genetica, ricorra al gamete di un donatore sano.

44 Secondo Palmerini, La Corte costituzionale e la procreazione assistita, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 620 ss., invece, la norma delle Linee guida ministeriali che prevede l’indagine solo “osservazionale” sull’embrione è legittima, posto che dal dettato della legge 40/2004 sarebbe possibile ricavare sia la praticabilità che il divieto della diagnosi preimpianto. Le Linee guida, pertanto, continua l’autrice, “non svolgonoÉun compito di mera specificazione della legge, ma effettuano una scelta tra due interpretazioni entrambe plausibili”. In tal caso quando l’atto normativo secondario accoglie una delle due interpretazioni possibili, “la scelta diviene vincolante per il giudice, che non potrà prescinderne applicando la norma di legge nel suo, pur plausibile, senso alternativo”. L’Autrice ha sottolineato la correttezza dell’operato del trib. Cagliari, ord. 17 luglio 2005, cit., nel non aver effettuato l’interpretazione costituzionalmente orientata della legge 40, bensì nell’aver sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 sul presupposto della legittimità delle Linee guida. Anche il Tar Lazio, sent. 9 maggio 2005, n. 3452, si è pronunciato a favore della compatibilità della norma sull’indagine “osservazionale” con il sistema delineato dalla legge 40. Si può obiettare che il divieto della diagnosi preimpianto non è previsto dalla legge 40, nè può essere desunto da questa per le ragioni indicate dalla sentenza in commento, pertanto esso non poteva essere previsto dal decreto ministeriale, il quale, sul punto, è illegittimo.

45 Così Gazzoni, cit., 200, secondo il quale l’accertamento dello stato di salute dell’embrione è “possibile con ogni mezzo”. D’accordo anche d’Avack, cit., 31-32. Secondo il Trib. Firenze, ord. 19.12.2007, cit., 55, il decreto ministeriale 21.7.2004, contenente le linee guida previste dall’art. 7 l. n. 40/2004, “ha ulteriormente delimitato [rispetto al divieto della diagnosi preimpianto a scopo eugenetico desumibile dall’art. 13] l’ambito della diagnosi dell’embrione da impiantare all’indagine osservazionale, con ciò precludendo la diagnosi pre-impianto che non ha finalità eugenetiche”. Questa prescrizione, pertanto, viola “il principio di legalità nonchè le regole che presiedono alla gerarchia delle fonti e ai limiti del potere regolamentare ministeriale (art. 17 l. 400/1988)É”. Trattandosi di un divieto contra legem, conclude il tribunale, esso deve essere disapplicato in forza dell’art. 5 l. 20.3.1865, n. 2248 All E.

46 Tar Lazio, sede di Roma, sez III-quater, sent. 21.1.2008, n. 398, in Guida al dir., 2008, 6, 60, con nota di Caruso.

47 Cass., 10 ottobre 2007, n. 21748, in Guida al dir., 2007, n. 43, 29 ss., con commento di Salerno, in Fam. pers. e sucess., 2008, 6, 508 ss., con nota di Gorgoni, La rilevanza giuridica della volontà sulla fine della vita non formalizzata nel testamento biologico (sintesi in www.personaemercato.it, sito a cura di G. Vettori) e in La nuova giur. civ. comm., 2008, 1, 1 ss., con nota di Santosuosso, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo.

48 Così S. Rodota’, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, 144, il quale si chiede, quali possano essere le forme e le tecniche di governo sociale del “caso”. Il discorso è estremamente interessante e coinvolge vari temi. Nell’ambito della riproduzione assistita, l’A. distingue tra situazioni in cui può essere legittimo eliminare “il caso”, ossia la “lotteria genetica”, ed altre in cui, invece, deve operare la naturalità dei processi biologici. Quale esempio del secondo tipo di situazioni, l’A. indica la clonazione riproduttiva e gli interventi che alterano il genoma allo scopo di far nascere una persona come “il prodotto più gradito al committente” (eugenetica); siamo di fronte a tecniche che violano la dignità umana e prospettano una visione strumentale della persona [c.d. scientismo (cfr. Dichiarazione Universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo, 11 novembre 1997)]. Quale esempio del primo tipo, invece, viene richiamata la scelta del sesso (ammessa in Inghilterra e in Germania) effettuata al fine di evitare la trasmissione di una malattia genetica (es: l’emofilia o la distrofia muscolare); scelta che presuppone la diagnosi preimpianto. “L’imporre una vita Ôdannosa’ a chi nasce, condannandolo a una malattia o a una disabilità che sarebbe stato possibile evitare, appare come una evidente violazione” del diritto al libero sviluppo della personalità (art. 3 co. 2 Cost.). Sotto questo profilo, l’ingegneria genetica, la terapia genica germinale si giustificano se volte ad eliminare fattori che possono determinare la nascita di persone affette da gravi menomazioni. In queste ipotesi, l’eliminazione della lotteria genetica realizza il principio di uguaglianza tra gli individui.

49 Legge 29 luglio 1994, n. 94-654 come modificata dalla legge n. 2004-800 del 6 agosto 2004.

50 L’art. 14 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina sancisce che “Non è ammessa l’utilizzazione di tecnica di assistenza medica alla procreazione per la scelta del sesso del nascituro tranne che allo scopo di evitare una malattia grave legata al sesso”.

51 Modugno, cit., 409 e 415.

52 Trib. Firenze, ord. 19.12.2007, cit.

53 Sent. 21.1.2008, n. 398, cit.

54 Osserva S. Rodota’, op. cit., 168 ss., che la tecnica dell’elencazione tassativa delle malattie genetiche che rendono ammissibile la selezione del sesso del nascituro “appare oggi sostanzialmente abbandonata”.

55 Il testo integrale è pubblicato su Guida al dir., 2008, n. 3, 14 ss., con commento di Salerno, Sulle malattie sessualmente trasmissibili uno “sconfinamento” di competenza. Le nuove Linee guida contengono, oltre a quanto già esposto nel testo, novità in tema di individuazione degli specialisti cui compete la certificazione dello stato di infertilità/sterilità, di attività di supporto psicologico, di gradualità delle tecniche procreativa da impiegare e di soppressione, in conseguenza delle pronunce dei tribunali cagliaritano e fiorentino e del TAR del Lazio, di alcune disposizioni inerenti la diagnosi preimpianto.

56 Si può forse replicare che in tal modo si presumerebbe illegittimamente l’esistenza del grave pericolo per la salute della gestante ogniqualvolta il feto sia affetto da rilevanti anomalie. Se anche in ciò vi sia del vero, sembra potersi affermare che la prevalenza accordata dal legislatore alla salute psichica della gestante consente a quest’ultima, nei casi legittimanti l’interruzione della gravidanza, di utilizzare i progressi della scienza per evitare il grave pericolo per la propria salute.

57 Sent. 21.1.2008, n. 398, cit.

58 Così Mantovani, Padova, 1995, 49 ss., il quale ricorda che le caratteristiche dello sviluppo dell’embrione consistono nella coordinazione, continuità e gradualità. Afferma Flamigni, Il libro della procreazione, Milano, 1998, 483, che “la fusione dei gameti porta alla formazione di un sistema genetico che si caratterizza per la sua unicità e per la completezza dell’informazione necessaria per l’espressione di tutti i caratteri individuali, in un processo sequenziale che non ha soluzione di continuità. Il genoma dello zigote non ha soltanto la capacità di dirigere la sintesi di tutti i prodotti genici che determinano la manifestazione dei vari caratteri, ma contiene anche i segnali di regolazione che, interagendo nelle sedi e nei momenti adatti con i segnali esterni, permettono il regolare svolgimento del programma di sviluppo. Le informazioni sia di tipo strutturale che regolatorio vengono espresse molto precocemente nelle prime fasi di divisione dello zigote”. L’A. non ritiene, tuttavia, che fin dalla fecondazione si formi un nuovo individuo in quanto, in tale momento, non sussistendo ancora l’indivisibilità (lo zigote è totipotente ossia in grado di dare origine a due gemelli identici o di fondersi con altri zigoti e dare origine ad una chimera), non avremmo ancora l’individualità tipica delle forme superiori di vita (amplius p. 500 ss.).

59 Le tesi posticipative fanno dipendere l’umanità del concepito dal verificarsi di certi avvenimenti durante lo sviluppo della vita. Questi avvenimenti sono stati identificati con all’annidamento, la comparsa della stria embrionale primitiva, con la cessazione della totipotenza delle cellule embrionali, con la nascita cerebrale o con l’organogenesi (cfr. amplius Mantovani, 52 ss.).

60 Cfr. Palazzo, cit., 87 ss., sez. III, La tutela nazionale, sovranazionale ed internazionale del non nato.

61 Quanto alla capacità di succedere (art. 462 co.1 c.c.), la dottrina ha rilevato che non si ha delazione attuale ma differita a favore del nascituro; di conseguenza non è consentita l’accettazione o la rinunzia all’eredità o al legato prima della nascita, momento in cui, invece, la delazione produce i suoi effetti e il nato acquista il diritto di accettare l’eredità. A riprova che il concepito non acquisti la titolarità, si può invocare l’art. 644 c.c. il quale disciplina l’amministrazione dell’eredità richiamando non l’art. 320 bensì le norme sull’eredità giacente, sicchè non può parlarsi di delazione in favore del concepito. Anche in relazione alla capacità di ricevere una donazione, si osserva che il concepito, sebbene abbia accettato la proposta di donazione, debitamente rappresentato e sussistendo l’autorizzazione giudiziale, non acquista la titolarità del diritto donato. Quest’ultima resta in capo al donante sebbene risolutivamente condizionata all’evento della nascita (di opinione contraria Palazzo, cit., 76, il quale deduce la titolarità del concepito dal fatto che i frutti della cosa donata sono riservati al concepito, ma si può replicare che proprio il verbo “riservare” indica che si tratta di una conservazione in vista della nascita e non di una titolarità, in piena coerenza con l’art. 1 co. 1 c.c.). Sostengono che il concepito non acquista diritti Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2002, 114 ss. e 792 ss. e Gazzoni, cit., 185.

62 Cfr. Gazzoni, cit., 186, il quale, in relazione ai diritti riguardanti il nascituro, parla di “situazione di attesa in vista del perfezionamento della fattispecie progressiva, che si risolve in una tutela meramente conservativa di un patrimonio destinato” (462, 784, 687 co. 2 e 715 co.1 c.c). Il legislatore, quindi, si è preoccupato di conservare certi diritti nell’interesse del nato senza attribuirli al concepito.

63 Falzea , voce Capacità (teoria gen.), in Enc. del dir., 1960, 12.

64 Falzea, op. loc. cit.

65 Cfr. la critica che Falzea, cit., 16, rivolge alla concezione atomistica della soggettività.

66 Zatti, La tutela della vita prenatale: i limiti del diritto, op. loc. cit.

67 Afferma Vettori, Diritto di contratti e “Costituzione” europea. Regole e principi ordinanti, Milano, 2005, 44, che “il rifiuto di posizioni assolute tiene conto di ogni valore ed offre un terreno di intesa e di confronto a chi muove da posizioni anche lontane. Ciò è possibile sono usando un metodo che non si fondi su di una astratta gerarchia piramidale dei valori ma proceda invece al loro bilanciamento secondo criteri ordinanti ma non assoluti”.

68 Zatti, cit., 154.

69 Lipari, Legge sulla procreazione assistita e tecnica legislativa, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 522.

70 Corte Cost., 28.1.2005, n. 48, cit.

71 Lipari, cit., 517; Oppo, op loc. cit.; Chieffi, cit., 4722-4726; Busnelli, cit., 563. Prima dell’entrata in vigore della legge 40 si sono pronunciati contro il riconoscimento della capacità giuridica al concepito: Busnelli, Quali regole per la procreazione assistita, in Riv. dir. fam. e pers., 1996, 671 ss.; Zatti, Diritti dell’embrione e capacità giuridica del nato, in Il dir. di fam. e delle pers., 1997, 107 s.; Id., cit., 154; Id., Quale statuto per l’embrione?, in Riv. crit. dir. priv., 1990, 437 ss.; Mazzoni, I diritti dell’embrione e del feto nel diritto privato. Rapporto sull’Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2002, 119.

72 Cass. pen., 21.6.2000, n. 11625, afferma che non è requisito essenziale dell’illecito extracontrattuale il fatto che esso “incida su una relazione intersoggettiva” e App. Torino, 4.10.2001, n. 1285, entrambe le sentenze sono pubblicate e commentate nel volume a cura di Vettori, Il danno risarcibile, Padova, 2004, 826 e 844.

73 Cass., 22.11.1993, n. 11503, in Foro it., 1994, I, 2479, (critico Gazzoni, cit., 192 ss., il quale nega la possibilità di scindere fatto illecito e danno e conclude negando, per motivi tecnico-giuridici, la ricoscibilità del danno non patrimoniale al nato per fatti avvenuti durante la gravidanza); Cass., 16.2.2001, n. 2335, in Riv. it. med. leg., 2002, 187; Cass., 4.4.2001, n. 4970, in Riv. it. med. leg, 2002, 1257 e Corte dei Conti, Lazio, 20.1.2006, in Leggi d’Italia on line.

74 Mazzoni, cit., 462, parla, in maniera critica, di posizioni di pensiero “decostruttiviste”.

75 Busnelli, cit., 562 ss.

76 Molto interessante è lo scritto di Jemolo, Ancora sui concetti giuridici, in La polemica sui concetti giuridici, a cura di Irti, Milano, 2004, 140, il quale, riprendendo la distinzione di Gorla tra concetti legislativi e concetti scientifici (veri concetti), afferma la relatività dei concetti legislativi.

77 Oppo, Declino del soggetto e ascesa della persona, in Riv. dir. civ., 2004, 834.

78 Mazzoni, cit., 464. Anche Lipari, cit., 520, è contrario a disarticolare la soggettività dalla personalità, così come Gazzoni, cit., 183, il quale non ritiene possibile scindere capacità e soggettività ma ammette che “l’ordinamento può disciplinare determinati valori, primo tra tutti quello della vita umana, pur senza necessariamente presupporre l’esistenza di una soggettività giuridica”. Distingue, invece, tra capacità giuridica e personalità, riconoscendo quest’ultima all’embrione Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, 377.

79 Secondo Mazzoni, cit., 465, il sistema giuridico-costituzionale deve preservare una tutela materiale all’embrione umano come elemento corporale, come entità ed identità corporea, come materiale umano vivente. E’ compito del diritto provvedere alla salvaguardia della vita materiale dell’uomo. Proprio trattando l’embrione come corpo “si esce dall’equivoco di farne con la personificazione un archetipo di uomo”.

80 Cfr. Modugno, cit., 417ss, il quale adduce argomenti per superare i dubbi di incostituzionalità del divieto di p.m.a. eterologa.

81 Modugno, cit., 423.

82 Palazzo, cit. 52 ss. e Mazzamuto, La procreazione: a proposito di un recente libro di Antonio Palazzo, in Eur. e dir. priv., 2007, 2, 573.

83 In caso di violazione di questo divieto, il medico è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro (art. 12 co. 2).

84 Mantovani, La fecondazione assistita tra il “diritto alla prole” e il “diritto ai due genitori”, in Indice penale, 1990, 418.

85 Su questo dibattito cfr. Furgiuele, La fecondazione artificiale: quali principi per il civilista?, in Quadrimestre, 1989, 265 ss.; Lenti, La procreazione artificiale. Genoma della persona e attribuzione della paternità, Padova, 1993, 249 ss. e Gorgoni, Rilevanza giuridica dell’embrione e “procreazione” di un solo genitore, in Riv. dir. priv., 2002, 2, 5 ss.

86 A favore di questa interpretazione si è espresso il Tar Lazio, sede di Roma, sez III-quater, sent. 21.1.2008, n. 398, cit., secondo il quale “deve ritenersi che la presenza in vita del partner o meglio dei componenti la coppia sia richiesta soltanto prima dell’inizio della procedura”, già avviata quando è stato formato l’embrione.

87 Le Linee guida disciplinano accuratamente la crioconservazione dei gameti e degli embrioni dettando significative regole procedurali. (cfr. i seguenti ¤¤ intitolati: Strutture di laboratorio e sicurezza, identificazione, controllo della conservazione, contaminazione, trasferimento dei gameti ed embrioni fra centri e crioconservazione degli embrioni: modalità e termini).

88 Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, cit., 103; Modugno, cit., 416.

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