ISSN 2239-8570

Le Sezioni Unite sull’ambito oggettivo della responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 c.c., di Francesca Sartoris


DOCUMENTI ALLEGATI

Con la recente sentenza pronunciata a Sezioni Unite in materia di appalto, la Corte di Cassazione ha risolto il contrasto di giurisprudenza relativo all’ambito oggettivo coperto dall’art. 1669 c.c.. La questione sottoposta all’attenzione del Supremo Collegio era limitata alla discussa possibilità di includere nel regime di operatività della richiamata norma le ipotesi di rovina o difetti non solo di beni immobili di nuova costruzione, ma anche di edifici preesistenti interessati da interventi modificativi di particolare rilievo.

Due le tesi in campo. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 24143/07; Cass. n. 10658/15) le ipotesi descritte dall’art. 1669 c.c. sono riferibili esclusivamente alle opere eseguite ex novo dalle fondamenta. Ad esse sono assimilabili solo quegli interventi di sopraelevazione di un fabbricato preesistente che presentano natura di costruzione nuova ed autonoma rispetto all’originaria.

Diversamente, l’opposto orientamento (Cass. n. 22553/15) ha adottato una interpretazione estensiva del disposto normativo sostenendo che debba rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche chi interviene su di una costruzione già esistente. In questo caso, però, deve trattarsi di opere di un certo rilievo che incidono sugli elementi essenziali dell’edificio, ovvero su elementi secondari rilevanti per la funzionalità della struttura.

Il Supremo collegio, nella sentenza che si segnala, ha aderito a quest’ultimo orientamento. Per giungere a tale conclusione, le Sezioni Unite hanno compiuto una ricostruzione storica ed esegetica dell’art. 1669 c.c..

Richiamato l’art. 1792 del Code Napoléon (da cui deriva), sono analizzate le differenze esistenti tra la formulazione della previsione normativa vigente sotto il Codice Civile del 1865 e quella della disposizione attualmente in vigore. In particolare, viene evidenziato come l’art. 1669 c.c. attribuisca oggi rilevanza, unitamente alla rovina degli edifici, anche al sorgere di gravi difetti che possono incidere sulla stabilità, ovvero sulla funzionalità dell’opera.

Questo dato è tenuto fortemente in considerazione in quanto incidente sulla interpretazione teleologica della norma in esame. Dalla sua introduzione se ne deduce che la ratio sottesa all’art. 1669 c.c. non è più soltanto quella di garantire l’incolumità pubblica dai pericoli di crolli, ma anche quella di assicurare che gravi difetti dell’opera non compromettano il complessivo godimento del bene secondo la sua propria destinazione.

Nell’ottica di quest’ultima riconosciuta finalità, le Sezioni Unite sostengono che sia del tutto indifferente che i gravi vizi riguardino una costruzione interamente nuova, ovvero un edificio preesistente interessato da lavori manutentivi o di restaurato. Il dato oggettivo su cui si deve spostare l’attenzione è unicamente l’incidenza che la problematica sorta in conseguenza dell’opera può avere sul godimento del bene.

Il Supremo Collegio precisa, inoltre, che i gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c. non devono essere riferiti in via esclusiva alle componenti strutturali di un edificio. La nozione di “gravi difetti”, per la sua ampiezza, ricomprende tutta quella serie di elementi interni ed esterni ad una struttura aventi una rilevanza anche solo funzionale. Proprio per la sua vaghezza risulta perfettamente adeguata al richiamo parimenti generico che la norma compie rispetto alle “altre cose immobili” cui i gravi difetti ineriscono.

Di conseguenza, apparirebbe ingiustificato circoscrivere la garanzia di cui all’art. 1669 c.c. soltanto alle attività dirette alla costruzione di nuovi edifici, dal momento che gravi difetti possono ben conseguire anche a lavori svolti su di una struttura già esistente.

Sempre ricorrendo ad un argomento di carattere letterale, il Supremo Collegio puntualizza che, rispetto al previgente testo normativo del 1865, oggi nell’art. 1669 c.c. il soggetto della seconda proposizione subordinata diviene solo “l’opera”. È l’opera a cui si riferisce il (pericolo di) crollo e il grave difetto.

Anche in questo caso viene rilevata l’importanza della scelta lessicale compiuta dal legislatore. Si tratta di una nozione che rimanda al risultato cui è tenuto l’appaltatore e, sopratutto, prescinde tanto dal tipo di intervento svolto, non necessariamente di natura edilizia, quanto dal fatto che essa consista o meno in una nuova costruzione.

In chiusura, le Sezioni Unite compiono un breve accenno ad un’altra importante questione di diritto che interessa l’art. 1669 c.c., ossia quella inerente la natura giuridica di tale responsabilità. Pur escludendo che tale questione abbia rilevanza ai fini della risoluzione del contrasto in esame, viene osservato quanto segue.

La tesi della natura aquiliana della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. (qualificata come ex lege) fino ad oggi è stata prevalentemente sostenuta in giurisprudenza sia in considerazione della finalità propria della norma, individuata nella tutela dell’incolumità personale dei cittadini, sia allo scopo pratico di riconoscere l’azione risarcitoria anche agli acquirenti del costruttore-venditore, ossia a soggetti terzi rispetto alle parti originarie del contratto di appalto.

Secondo il Supremo Collegio, però, tale tesi avrebbe ormai perso la sua funzione storica o, quanto meno, l’importanza assunta nell’interpretazione della norma. E ciò viene sostenuto in ragione di due circostanze delle quali i Giudici di Legittimità si limitano a prendere atto.

In primo luogo, proprio la richiamata previsione nel testo normativo della categoria dei “gravi difetti”, oltre ad aver spostato il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, avrebbe anche determinato un cambio di prospettiva da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale.

In secondo luogo, il riconoscimento dell’efficacia ultra partes del contratto di appalto compiuto dalla giurisprudenza con riguardo agli appalti pubblici, ammessa anche dalla dottrina in via generale per consentire ai terzi l’esercizio dell’azione risarcitoria ex art. 1669 c.c., avrebbe privato la teoria della responsabilità aquiliana del suo originario scopo pratico e giustificativo avvalorando l’opposta tesi sostenitrice della natura contrattuale.

Taggato con: , , , ,
Pubblicato in Contratto, Illecito civile, News, Note redazionali, Sentenze, Sezioni unite

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Newsletter a cura di Giuseppe Vettori